Commento

Quelle pensioni irriformabili

I gestori dei capitali della previdenza professionale non hanno completamente le mani libere nella politica degli investimenti

Ti-Press
5 settembre 2018
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È passato quasi un anno da quando popolo e Cantoni bocciarono la riforma ‘Previdenza 2020’ che mirava a mettere in equilibrio sia i conti del primo pilastro – l’Avs – sia quelli della previdenza professionale (il secondo pilastro). Non trovò conferma nelle urne, il compromesso di centro-sinistra che tentava di alleggerire l’aumento dell’età di pensionamento delle donne da 64 a 65 anni e la diminuzione del tasso di conversione del capitale di vecchiaia, con un assegno di rendita Avs un po’ più elevato e un’uscita dal mondo del lavoro più flessibile (da 62 anni). I contrari alla riforma, di destra e di sinistra, avevano avuto gioco facile nel convincere la maggioranza dei cittadini a dire no a una proposta che, dai rispettivi punti di vista, non risolveva quanto si proponeva: ovvero la sostenibilità a lungo termine dei conti del primo pilastro e il riequilibrio tra quanto promesso con l’introduzione quasi obbligatoria della previdenza professionale (solo per i salari annui superiori ai 21mila franchi) e quanto ragionevolmente le casse pensioni potrebbero mantenere visto il protrarsi di condizioni di tassi d’interesse prossimi allo zero.

Bisogna ricordare, infatti, che i gestori dei capitali della previdenza professionale (casse pensioni autonome o fondazioni collettive) non hanno completamente le mani libere nella politica degli investimenti che dovrebbero poi remunerare il cosiddetto avere di vecchiaia, il capitale che ogni assicurato accumula nel corso della propria vita professionale alimentato dai contributi salariali (lavoratore e azienda). Quel capitale aumenta a seconda del rendimento minimo garantito, per la parte obbligatoria (ora all’1% l’anno e si propone di portarlo allo 0,75%; era del 4% fino al 2002) e della bontà degli investimenti ‘liberi’ per la parte sovraobbligatoria.

La maggior parte degli attivi degli enti previdenziali, per legge, deve essere allocata in franchi svizzeri e in prodotti finanziari giudicati il più possibile sicuri. Ecco quindi che i bilanci di molti istituti negli ultimi anni si sono riempiti di obbligazioni svizzere (pubbliche o private) che rendono poco o nulla e di attivi immobiliari che sono ormai a fine corsa (il tasso di sfitto è in aumento). Fattori che uniti a una demografia calante e all’avvicinarsi all’età di pensionamento dei nati dopo la metà degli anni 50 (la maggior parte dei componenti della piramide della popolazione) determinano una situazione di fragilità nel medio e lungo periodo del secondo pilastro, più che del primo (Avs). Insomma, sarebbe più urgente riformare questa parte del sistema previdenziale svizzero, anche in modo più fantasioso e garantendo nel contempo i redditi più bassi. E le sfide non mancano, iniziando dall’intermittenza professionale delle nuove generazioni, dall’aspettativa di vita più lunga e dall’avvento della digitalizzazione che per forza di cose inciderà sull’evoluzione salariale. Tassare i robot, per esempio, potrebbe presto non essere una boutade di economisti visionari, ma una necessità sociale.

La politica, dopo la sconfitta referendaria dello scorso anno, ha invece deciso di iniziare l’aggiustamento del sistema pensionistico partendo dalla sola Avs con un esile compromesso, che se sarà confermato in aula, difficilmente sarà avallato, ancora una volta, alle urne. Legare il finanziamento del primo pilastro all’aumento dei contributi salariali e dell’Iva (imposta antipatica e antisociale per antonomasia), suona perdente in partenza. Se a questo si aggiunge la commistione spuria tra una riforma tributaria (il Progetto fiscale 17) e una sociale (l’Avs), il risultato non cambia.

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