Commento

L’Italia di Salvini tra diritto e politica

Le indagini sul ministro dell'Interno sono sacrosante. Ma il suo ‘poliziottismo’ viene anche da Mani Pulite

(Keystone)
29 agosto 2018
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“Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge” (Art. 13 della Costituzione italiana). Sta tutta qui la ragione che ha spinto la procura di Agrigento a indagare Matteo Salvini, dopo che il ministro dell’Interno ha impedito per giorni lo sbarco ai migranti della nave Diciotti.

Il concetto di fondo dovrebbe essere facile da comprendere: è il caro vecchio habeas corpus, la salvaguardia dell’individuo di fronte all’arbitrio del sovrano, con la quale già in Inghilterra si inaugurò l’era che ha portato alle democrazie costituzionali. Anche se molti paiono (fingere di) non saperlo, perfino in Ticino. Come Boris Bignasca, che scimmiotta sui social le strategie di fratello Salvini (meritandosi il ‘rilancio’ di Lorenzo Quadri, mentre Norman Gobbi ritwitta direttamente il salviniano “non ho paura di nulla”): “Controllare e difendere i confini della propria nazione, ora per i magistrati italiani, è diventato reato”. No, santocielo, no. È farlo calpestando la Costituzione, che fa ipotizzare un reato. È farlo senza uno straccio di legittimazione giudiziaria. È farlo pretendendo che i tuoi tweet valgano più della carta sulla quale, più o meno distrattamente, hai giurato da pochi mesi.

Nessun dubbio, dunque, sul fatto che l’azione della procura sia legittima, fermo restando che anche per Salvini vale la presunzione d’innocenza (sarebbe bello non doverlo ricordare, ma sono tempi furiosi). È anche un’azione politicamente opportuna? Qui il discorso si fa più complicato. Si potrebbe invocare la leggendaria ‘obbligatorietà dell’azione penale’ che però, appunto, è una favoletta: ogni indagine implica un ampio margine discrezionale. E stavolta il rischio è chiaro: far passare Salvini per una povera vittima, perseguitata da un potere giudiziario che vuole sostituirsi a quello politico. “Sarà un bo­omerang”, ha predetto lui stesso.

Tanto più che il dottor Patronaggio, ottimo magistrato, si trova a dover scontare un’eredità pesantissima. Perché è vero che, da Tangentopoli in poi, abbondano le figure di togati che hanno usato il loro potere per fare politica contro la politica, invocando dalla loro la vox populi (“gli inquisiti non si possono lasciare in libertà, altrimenti la gente s’incazza”, Davigo dixit; e ancora, anticipando le attuali fregole giustizialiste: “Non ci sono troppi prigionieri: ci sono poche prigioni”). Giustificando così, per il fine di una presunta moralizzazione, anche i mezzi più discutibili. I numerosi suicidi in carcere – ma anche l’alternarsi di clamorosi arresti a silenziose e tardive assoluzioni – sono lì a ricordarcene le conseguenze.

Il problema è che nel frattempo la politica ha imparato da loro, e ora lo stesso giochino lo fanno sulla pelle dei migranti i savonarola grillini e leghisti; che con la scusa della popolarità, della morale e della sicurezza danno un’ulteriore spallata allo Stato di diritto. Spingendo sempre più in là il confine fra lecito e illecito, fra autorevolezza e autoritarismo. Come nota su ‘Strade’ Carmelo Palma: “L’ignobile ‘poliziottismo’ di Salvini è il ‘manipulitismo’ dei tempi nuovi”. Sarebbe bello riportare la questione allo stretto diritto; ma per dirla con Fabio Cammalleri “lo stretto diritto, in Italia, è un caro ricordo”. E così ci si trova a dover scegliere fra la tutela di leggi fondamentali e i ragionamenti di opportunità politica. Una bella rogna.

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