Commento

Non sono i greci i veri vincitori

La fine del bailout per la Grecia non significa di certo l’uscita dal tunnel dell’austerity che ne ha stravolto la società e l’economia

22 agosto 2018
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La fine del bailout per la Grecia non significa di certo l’uscita dal tunnel dell’austerity che ne ha stravolto la società e l’economia. I segni positivi accanto alle cifre del Pil e a quella dell’avanzo primario di bilancio sono arrivati dopo otto anni di dure riforme imposte dai creditori, che se da una parte hanno evitato l’uscita di Atene dall’euro, dall’altra hanno ipotecato e imbrigliato l’azione politica dei prossimi governi ellenici, di qualunque colore politico, da qui al 2060. Fino a quella data, infatti, i conti pubblici greci – secondo gli economisti di Bruxelles – dovranno avere un saldo positivo del 2,2% l’anno per riportare il rapporto debito-Pil sotto il 100% dall’attuale 178%. Una fede totale nella bontà del ciclo economico che a confronto i gloriosi piani quinquennali di sovietica memoria sprizzavano pessimismo da tutti i pori. Non sarebbe stato diverso se, invece della moneta unica europea, la Grecia avesse avuto ancora la sua Dracma. Le menzogne statistiche sullo stato delle sue finanze pubbliche (tenute artificialmente sane con magheggi contabili consigliati da rinomati istituti finanziari, Goldman Sachs in primis) non sarebbero state certamente meno evidenti con una valuta nazionale. I creditori internazionali (banche, fondi d’investimento e singoli risparmiatori) non avrebbero fatto, come si dice, buon viso a cattivo gioco. Ovvero, non avrebbero accettato di buon grado di vedere i loro capitali andare in fumo, bruciati da svalutazione monetaria e inflazione. I precedenti, dal Messico all’Argentina fino alla più recente crisi turca, non mancano.

Certo, il governo di Atene, in caso di sovranità monetaria, avrebbe potuto dichiarare bancarotta, ristrutturare il debito e sperare in un ritorno degli investimenti a bufera passata. Le perdite finanziarie sarebbero state per la maggior parte del settore estero, che ci avrebbe pensato due volte prima di riprestare denaro a un debitore sovrano sì, ma insolvente.

Così non è stato perché il sistema della moneta unica non prevede regole per un default controllato di uno dei suoi membri. Eppoi c’era il settore finanziario europeo (soprattutto quello francese e tedesco con Société Générale e Deutsche Bank) fortemente esposto nei confronti dell’economia greca. Il primo pacchetto di aiuti dell’Unione europea, quello da 86 miliardi di euro, frutto di prestiti bilaterali prima che un accordo intergovernativo mettesse in piedi il Meccanismo europeo di stabilità (Mes), servì a evitare perdite miliardarie di pari importo ai bilanci delle banche francesi e tedesche.

E fu quel primo piano di sostegno finanziario a far sottoscrivere un memorandum d’intesa tra il governo greco dell’epoca (si era nel 2010) e la famosa Troika (Ue, Bce e Fmi) con il quale a fronte dell’aiuto, a dire il vero poco disinteressato, s’imponevano profonde riforme del mercato del lavoro, della pubblica amministrazione, del sistema previdenziale e si apriva la stagione delle privatizzazioni. Da allora porti, aeroporti e ferrovie greci, ma non solo, sono passati a società straniere, nell’ordine cinesi, tedesche e italiane. Ne seguirono altri due di programmi di assistenza finanziaria e la contropartita è sempre stata quella della richiesta di un arretramento dello Stato in settori anche sensibili come la sanità.

In questi otto anni i governi che si sono succeduti sono passati dalla sinistra socialdemocratica di Papandreou a quella radicale (con una stampella nazionalista) di Tsipras passando per i conservatori di Samaras, ma la politica economica non ha potuto arretrare di un centimetro dall’ortodossia imposta dalla Troika. Il risultato è una società greca più povera (la disoccupazione è al 21%) e disillusa.

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