Commento

Se crollano i ponti, crolla tutto

Luoghi e simboli per andare verso l'altro, con coraggio e voglia d'ignoto

17 agosto 2018
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Un ponte, anche il più piccolo, è assai di più di un manufatto. È soprattutto uno spazio mentale. Un luogo ben definito, voluto dall’uomo, per andare “oltre”. Per superare un ostacolo (fiume, lago, valle e persino il mare), per saltare con coraggio e un po’ d’incoscienza il limite apparente. Se dunque crolla un ponte, peggio si sbriciola, cade, precipita l’intero nostro orizzonte. Che è fatto sì di forza ma anche di paura. Lo sanno bene quelli come me che soffrono di vertigini. Al tempo spaventati e attratti dall’ignoto. Tesi a tirar dritto e, nello stesso tempo, bloccati dalla sensazione dell’impalpabile, incontrollabile. Salire su un ponte – a piedi, in auto, in treno – è un atto di fiducia nell’umanità tutta. È credere nella forza, intelligenza, creatività e persino stupore dell’uomo. Ecco perché non può improvvisamente crollare. Mai.

Attraversare un ponte è sempre un atto colmo di rischi. Eppure necessario. Lo sappiamo bene noi gente di montagna, costretti a costruire viadotti e manufatti che sfidano le leggi di gravità e anche il cielo. Che per muoverci, andare oltre, abbiamo dovuto coltivare l’ingegno artigianale e scientifico che ci ha permesso di bucare i monti, dove far passare treni e auto, ma anche, e soprattutto, farci passare là dove nessuno immaginava fosse possibile. Perché confrontati coi nostri limiti stanziali, poco avvezzi agli equilibrismi del moderno. I ponti, magari in forme architettoniche strabilianti, cattedrali della modernità dove l’uomo ritrova la propria vocazione sociale e itinerante. Nomade. Ecco perché non possono crollare. Mai.

I ponti del moderno, costruiti a metà del secolo scorso, vere icone del presente. Luoghi persino sacrali – in una società che ha smarrito il senso del sacro – proprio perché intermediari fra il “noi” e gli “altri”, fra le nostre sicurezze e l’ignoto, fra la tradizione e la voglia-necessità del nuovo. Spazi di transito non scontati, perché sospesi nel vuoto; perché sfidanti l’impossibile. E come tutti i luoghi sacri, meritevoli di rispetto. Quasi di silenziosa venerazione. Come i bambini con gli occhi all’insù, colti dallo stupore della magnificenza inspiegabile e proprio per questo rassicurante perché lontana dalla nostra comprensione e dunque sorretta unicamente da un atto di fede.

I ponti – sempre e comunque – ispiratori di fiducia. Perché attraversarli vuol dire credere nell’uomo, negli uomini che li hanno costruiti e li controllano per noi, nella scienza e nell’intelligenza della comunità. In una parola, credere nello Stato. O anche nel Signore, per dirla col prete che portava Brancaleone e i sui fidi in Terra Santa. Ecco perché non possono crollare. Se crollano, viene giù tutto. Ma proprio tutto.

I ponti e Genova, un destino segnato. Città chiusa, complicata, con i suoi “caruggi” dove non batte mai il sole e aperta, col suo porto dove approdano tutti i viandanti del mondo e qui si fermano. Città arrampicata sui monti (pure troppo arrampicata, negli anni del boom edilizio), quasi una sfida alle leggi della fisica, agglomerato urbano che “precipita” nel mare. Città legata dai ponti e che, da sempre, odia le barriere. Genova città che sa dare valore alla democrazia, difesa negli anni contro ogni tentativo totalitario e reazionario. Oggi, drammaticamente, simbolo di un’Italia che fatica a ritrovarsi. Dove crollano i ponti e si erigono muri. Dove la paura dell’ignoto ha trovato drammatica giustificazione, sfarinando la fiducia in chi doveva proteggere la vita in primo luogo, ma anche il coraggio e i simboli di una comunità che, intera, è precipitata nel vuoto.

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