Commento

Bimbe lacerate in Somalia, madre condannata in Svizzera

Tolleranza zero elvetica sulle mutilazioni genitali, se parte il tamtam nelle comunità di rifugiati africani, ci saranno meno baby-vittime

13 luglio 2018
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In Senegal, la chiamano la ‘maestra del coltello’, tra danze, sangue, urla e preghiere, ‘aiuta’ le bambine a diventare donne. Così vuole una tradizione barbara. Ma rituali di mutilazione genitale sono praticati in Sudan, Eritrea, Somalia, Etiopia… dove si stima che il 98% delle donne l’abbia subita. Alcuni Paesi africani la vietano, ma quando una credenza ha messo radici, passando di madre in figlia come il latte materno, è difficile estirparla. Chi non si sottomette rischia di venire considerata una poco di buono. La pressione sociale è talmente forte che questa ‘maledizione’ insegue le bambine africane anche in Svizzera, perché quando una credenza è nella mente, c’è qualcosa di ‘magico’ che la alimenta e la razionalità ha le armi spuntate.
In Svizzera 14mila ragazze sono state vittime di una mutilazione genitale o lo saranno presto, vista l’affluenza di rifugiati da Paesi dove questa pratica è diffusa. Cifre enormi raccolte dal gruppo di Ong che, su mandato della Confederazione, ha creato lo scorso anno una nuova piattaforma online nazionale (www.mutilazioni-genitalifemminili.ch) per informare le dirette interessate e i professionisti (personale sanitario, assistenti sociali, magistrati, docenti).

Una violazione dei diritti umani che la Svizzera giustamente non tollera. Da sei anni è in vigore l’articolo 124 del Codice penale svizzero che sanziona chi impone queste mutilazioni o lo sapeva, ma ha taciuto. Anche se avvengono all’estero, il reato può essere giudicato in Svizzera, se la persona vi risiede o è in transito. E le conseguenze sono pesanti, fino a 10 anni di carcere.

Ieri a Neuchâtel è stata condannata ad otto mesi di carcere con la sospensione (vedi a pagina 5) una madre somala, che ha fatto sottoporre entrambe le due figlie alla rimozione del clitoride in Somalia, quando avevano sei anni. Mutilazioni effettuate fra gennaio 2013 e novembre 2015 in Africa, poco prima che la donna arrivasse in Svizzera nell’ambito di un ricongiungimento familiare. Vittima della medesima sorte la stessa madre quando era piccola.

La condanna di questa donna analfabeta, con quattro figli e separata dal marito, avrà veramente un senso se la sua storia passerà di bocca in bocca, nelle popolose comunità somale ed eritree che vivono in Svizzera e in Ticino. Ma chiediamoci: anche se il tamtam dovesse funzionare, basterà la paura di una condanna ad estirpare una credenza millenaria? Punire queste barbarie è doveroso, informare è urgente, ma forse ci vorranno più generazioni per vedere qualche risultato.

A fare davvero la differenza saranno le ‘testimonial’ di questa cultura, chi fa ‘outing’ e dice basta. Donne musulmane coraggiose che sanno parlare alle loro connazionali. Come Amal Bürgin, musulmana che vive da tempo a Basilea e si batte contro questo tabù. Ha raccontato la sua infibulazione in Sudan sulla ‘Regione’: “Mia madre disse che quel rituale si tramanda da generazioni, era per il mio bene, così da mantenermi ‘pura’ fino al matrimonio”. A 5 anni, Amal fu portata al centro di mutilazione genitale rituale di Khartum: le hanno asportato clitoride, labbra e cucito l’apertura vaginale. Solo un piccolo foro permetteva l’espulsione di urine e sangue mestruale. «Ricordo l’anestesia locale, l’ago che mi ricuciva... e il dolore. Dissero che così diventavo donna. Quel giorno mi fecero regali, congratulazioni... ma io piangevo dal male ogni volta che dovevo urinare». C’è chi resta incontinente, chi ha problemi al parto e chi diventa sterile.

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