Commento

Contro la ‘democrazia’

Spocchiose riflessioni sulla differenza fra stato democratico e dittatura della maggioranza

John William Waterhouse, Echo and Narcissus, 1903, Walker Art Gallery, Liverpool
(Wikimedia Commons)
9 giugno 2018
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9 febbraio, Lia, Brexit, l’indipendentismo catalano, le impuntate di Mattarella contro la scelta dei ministri pentaleghisti: al di là delle legittime critiche, c’è chi coglie ogni occasione per gridare all’attentato contro la democrazia. Il giochino è sempre lo stesso: siccome l’elettorato ha votato in un certo modo, qualsiasi politica traligni da quella ‘vox populi’ costituisce un infame tradimento dell’ideale democratico. Magari da imputarsi a una presunta élite che trama nell’ombra, per arricchirsi sulla pellaccia dell’uomo qualunque. Perché ormai la democrazia è vissuta come una proprietà privata:  chi mette il gettone vuole scegliere la musica.

Ferma un attimo. Lo so che suona impopolare, ma nessuna vera democrazia – neanche quelle che assegnano un ruolo importante alla consultazione diretta, come la nostra – ha mai pensato di poter pantografare direttamente in leggi e decreti il risultato delle urne. Questo perché i padri di quelle democrazie erano consapevoli del paradosso che rischia di divorarle dall’interno.

È vero, infatti, che la democrazia si basa sulla “promessa che ciascun individuo abbia pieno e assoluto controllo sulla propria vita, conducendola come e dove meglio crede” (Giovanni Orsina: il suo ‘La democrazia del narcisismo’ ispira tutto quel che segue). E pure vero è che quella promessa poggia a sua volta logicamente su un ideale di uguaglianza, il cui climax starebbe nel pesare i voti secondo il principio per cui “uno vale uno”, quali che siano le conseguenze. Ma è anche vero, come notava Tocqueville, che “l’uguaglianza, che rende gli uomini indipendenti gli uni dagli altri, fa sì che essi prendano l’abitudine e sentano la voglia di non seguire altro che la loro volontà”. E se lo Stato subordinasse l’utile collettivo al semplice aggregato di questi appetiti individuali, la pacifica convivenza degenererebbe in una giungla hobbesiana, un pulviscolo di egoismi belluini, tenuto insieme al massimo da affiliazioni tribali (“prima i nostri!”). Servono dunque argini all’esplosione dell’iperdemocrazia.

Paternalista, lo so. Ma è anche per questo che esistono le costituzioni. E che per i Paesi liberi non si parla solo di ‘democrazia’ – lo era anche la Germania Est, in teoria – bensì di ‘democrazia costituzionale’. L’idea è che nessun sistema di partecipazione popolare possa basarsi sul solo ‘volere della maggioranza’, che di per sé potrebbe dare spazio a gravi prevaricazioni: l’esempio che si fa sempre è quello dell’‘ostracismo’ nella democrazia ateniese, per cui bastava che una maggioranza dei cittadini scrivesse il nome di un cittadino su un pezzo di coccio per sancirne la cacciata dalla città; il grottesco “adesso lo Stato siamo noi” urlato in piazza da Luigi Di Maio rimanda direttamente lì.

Con questo in testa, le moderne democrazie hanno costruito un sistema rappresentativo, nel quale deputati e senatori vengono votati ogni tot anni, ma non devono rispondere ‘in tempo reale’ delle loro decisioni, e non sono subordinati in questo né agli elettori, né ai partiti. Con buona pace di chi vorrebbe metterli alla catena dei rispettivi caporali partitici, o peggio ancora “del web”. E poi, naturalmente, c’è quella separazione di poteri che permette ai legislatori, al governo e al potere giudiziario di controbilanciarsi (per questo, per inciso, anche l’elezione diretta dei giudici è un abominio). Serve anche a evitare l’emergere di un ‘uomo forte’ che sull’onda del consenso popolare accentri su di sé tutti quei poteri, fino a non dover più rispondere nemmeno alla sua coscienza. I partiti – che incoraggiano la partecipazione popolare, ma al contempo la moderano – dovrebbero assolvere un compito molto simile. Così pure il ‘mandarinato’ amministrativo, che svolge molte delle funzioni dello Stato senza doversi sottomettere alle urne. Nemmeno l’integrazione europea, ricorda l’impeccabile Orsina, “nasce per accrescere il tasso di democraticità del continente, ma per limitarlo. Anche se, certo, con l’obiettivo di difendere la democrazia dai suoi stessi limiti”.

È meglio ricordare, infatti, che la democrazia non è irreversibile: l’Italia del 1922-3, la Germania dieci anni dopo, l’Algeria del 1991, la Russia di Putin, la Turchia di Erdogan, il Venezuela di Chavez e Maduro sono tutti esempi di ‘malattie autoimmuni’ del sistema democratico. Né è meno pericoloso quello che il filosofo José Ortega y Gasset chiamava il trionfo dell’’uomo-massa’, la “sovranità dell’individuo senza qualifica”, dei “bimbi viziati” che non sanno distinguere un desiderio dall’opportunità della sua soddisfazione. Un mondo nel quale le opinioni degenerano in “appetiti rivestiti di parole”. E nel quale la vita politica si riduce, secondo la funesta previsione del pensatore olandese Johan Huizinga, a “imporre e dar vigore di legge ai luoghi comuni dei caffè”.

Resta da chiedersi perché oggi un modello che pareva scolpito nella roccia vacilli così clamorosamente, travolto com’è da canettiane “masse di capovolgimento”. C’è ovviamente il fattore economico: le democrazie nate dalle ceneri della guerra antifascista garantivano crescita e sicurezza negli anni del boom (i famosi ‘trente glorieuses’). Erano dunque più rade le voci che ne contestavano la legittimità. Oggi è più difficile, anche e soprattutto per questioni strutturali. Ma conta pure quella che Ortega chiama la “diserzione delle minoranze direttrici”. E su questo dovremmo tutti passarci il saggio di Orsina, con la stessa urgenza con la quale si attacca l’ossigeno a un moribondo: ché raramente si legge un’analisi così lucida di quella diserzione. La quale passa anzitutto dal desiderio spasmodico di accontentare il “cittadino narcisista”, figlio del boom e avvezzo a dare per scontata la sua libertà, dunque avverso a qualsivoglia limite ‘autoritario’ alla sua autodeterminazione. Ecco dunque la tendenza a promettere ‘a ciascuno il suo’, incuranti delle contraddizioni: come si fanno a tenere insieme flat tax e reddito di cittadinanza, senza sbancare le casse dello Stato? “Esigo che lo Stato spenda sempre più per me, ma mi rifiuto di dargli questi soldi da spendere”, sintetizza Sergio Benvenuto su ‘Doppiozero’. Va ricordato che narcisista divenne pure, per analoghe ragioni culturali e anagrafiche, la stessa classe dirigente: come sempre, è un gioco di specchi quello che la lega ai suoi elettori.

Solo che, quando l’élite si arrende al narcisista, diventa specchio delle sue capricciose emozioni. Come se non bastasse, fra le emozioni che ‘funzionano’ meglio in politica ci sono sempre state la rabbia, la frustrazione, l’ostilità. Che vengono stappate come un pessimo spumante: e salta dunque quel tappo etico che nella ‘Repubblica’ di Platone distingueva il “tipo democratico” dal “tipo tirannico”. Partiti e movimenti diventano “banche dell’odio” (Sloterdijk) e un’intera élite fa a gara per dire all’elettore-Narciso, in una versione belligerante del Mike Bongiorno di Umberto Eco: “Voi siete Dio”. Si può poi sperare che questo nuovo Prometeo scatenato trovi nella sua libertà – per forza d’esperienza e buonsenso – nuovi principi sui quali fondare la convivenza democratica. Senza bisogno di lontane tecnocrazie e relative subordinazioni. Ma l’uomo-angelo era anche l’illusione del totalitarismo sovietico. E poi basta uno sguardo a Facebook, per farsi venire qualche dubbio.

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