Commento

Un obbligo che è ben poca cosa

Solo lo 0,85% delle aziende interessate, legge a termine: tutti i limiti del progetto sulla parità salariale approvato dal Consiglio degli Stati

((Keystone))
30 maggio 2018
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A fine febbraio la maggioranza borghese (Udc, Plr, Ppd) e maschile di un Consiglio degli Stati con poche donne (7 su 46) aveva puntato i piedi, bloccando il progetto con il quale il Consiglio federale indicava una via per uscire dall’impasse: obbligare le aziende private e pubbliche con almeno 50 collaboratori a svolgere ogni quattro anni un’analisi sulla parità salariale e a sottoporla a verifica esterna; i datori di lavoro inadempienti non sarebbero stati segnalati all’autorità, né messi su una lista nera accessibile al pubblico. Un progetto “insopportabilmente moderato” (‘Tages-Anzeiger’), «il minimo del minimo accettabile» (il ‘senatore’ socialista Didier Berberat, ieri). Che però almeno aveva un duplice merito: ricordare a tutti che la parità salariale è questione di società, non un affare di o per sole donne; e marcare una cesura tra un passato fatto di ‘misure volontarie’, servite a ben poco, e un futuro nel quale si cercherà di concretizzare la parità salariale attraverso disposizioni di legge vincolanti.


Ora, questo duplice merito ce l’ha pure la soluzione adottata ieri in seconda battuta dagli Stati: le analisi dei salari, da sottoporre a verifica esterna, saranno obbligatorie per aziende private e pubbliche con più di 100 collaboratori; e i datori di lavoro del settore pubblico saranno chiamati a dare l’esempio, pubblicando i risultati dettagliati dell’analisi e della verifica. Solo i ‘senatori’ Plr e Udc avrebbero voluto continuare a ‘combattere’ la persistente discriminazione salariale in Svizzera (quei 600 franchi al mese che le donne, ‘inspiegabilmente’, guadagnano in meno rispetto agli uomini) affidandosi alla (discrezionale) buona volontà dei datori di lavoro, o al massimo a un’autocertificazione con la quale questi dichiarerebbero di rispettarla (senza peraltro essere costretti a specificare i criteri utilizzati per eseguire l’analisi...).


Sempre meglio di niente, si dirà. Anche perché adesso tocca al Nazionale – dove Udc e Plr hanno la maggioranza – dire la sua. Tutto sommato, dunque, è forse meglio arrivarci con una proposta in grado di reggere, piuttosto che forzare la mano correndo il rischio di restare alla fine con un pugno di mosche in mano.


Roba da politici. Chi non lo è, guarda alla sostanza. E allora non possiamo che constatare come questo progetto – che il Parlamento s’accinge ad approvare (?) a 37 anni dall’iscrizione nella Costituzione federale del principio “salario uguale per lavoro di uguale valore”, e 22 anni dopo l’entrata in vigore della legge che vieta qualsiasi discriminazione – sia davvero ben poca cosa. L’obbligo di sottoporre ad analisi i salari dei propri collaboratori non riguarderà neanche l’1% delle aziende elvetiche e soltanto una minoranza delle lavoratrici e dei lavoratori. Nessuna sanzione è prevista per chi sgarra. La normativa, per giunta, non è di durata illimitata (come vorrebbe il Consiglio federale), ma è a termine: 12 anni. Una proroga potrà (ma non dovrà per forza) essere ventilata qualora, dopo 9 anni (ossia due analisi salariali), venga dimostrato che la legge non ha dato i frutti sperati. Nove anni per cambiare mentalità, per ridurre la discriminazione, sapendo che poi salta l’obbligo e tutto – sul piano legislativo – tornerà come prima? Mah.

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