Commento

La crisi italiana fra tecnocrati e falsari

L'incidente perfetto è stato cercato e messo in scena con tempismo ragguardevole

29 maggio 2018
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Se l’Italia non farà “la fine della Grecia” dovrà ringraziare Sergio Mattarella. L’espressione virgolettata ebbe una certa popolarità qualche anno fa. E torna buona oggi, in un’accezione un po’ diversa. Allora un Paese in bancarotta fu “salvato” al prezzo di un assoggettamento forzato e socialmente iniquo alle condizioni poste dalle istituzioni finanziarie internazionali, del quale si incaricò un esecutivo, quello di Syriza, nato in realtà per opporvisi. La differenza è che l’Italia non è in bancarotta, ma neanche il più benevolo dei commentatori ha potuto nascondersi che l’abortito governo cambiatutto del professor Conte, tanto insostenibili e menzogneri i suoi propositi, avrebbe alla fine dovuto passare per la stessa ordalia. E gli italiani pagarne il conto.

Se questo basti a spiegare la natura inedita dello scontro politico-istituzionale tra il presidente e le due forze che (maggioritarie in parlamento e dunque legittimate a farlo) avrebbero sostenuto tale esecutivo, e a giustificare costituzionalmente la fermezza che Mattarella ha opposto loro, è un argomento destinato a non esaurirsi in breve, ma sta già scadendo nel grottesco. Le parole vengono ribaltate nel loro significato a seconda delle bocche da cui escono o dei fogli su cui sono stampate. Vien male a ripeterle, sapendo che si tratta di un confronto falsato.

Da una parte quel Mattarella che, per dirne la dirittura, si dimise da ministro non volendo partecipare a un governo che decretava gaglioffamente a favore di Berlusconi; dall’altra i falsari che il 4 dicembre 2016 “difesero” la Costituzione dal goffo tentativo di riforma dello sventato Renzi, e oggi, strumentalmente come allora, ne ignorano il dettato circa le prerogative del presidente della Repubblica. Il petulante Luigi Di Maio e il debordante numero di fascioleghisti che gli fanno il coro nel chiedere l’impìcment (“Matteo, ma tu sai come si scrive?”) di Mattarella, non sanno o fingono di non sapere che prima di lui Scalfaro impose a Berlusconi di cancellare il nome di Previti proposto alla Giustizia, e che lo stesso fece Napolitano con Renzi nel caso di Gratteri. E perché Mattarella no? E poi, perché Salvini a tutti i costi non ha accettato di indicare Giorgetti (il “vanto intellettuale” della Lega) al posto di Savona?

Domanda retorica. L’incidente perfetto è stato cercato e messo in scena con tempismo ragguardevole. E svela una verità di fondo: Lega e 5Stelle non possono che affidare a una perpetua campagna elettorale le proprie fortune politiche (Trump insegna). Anche dei fallimenti, cercati o subiti, si fa materiale di una propaganda (i poteri forti, Mattarella, la Germania…) che si autoalimenta e soprattutto evita ogni prova responsabilizzante.

Su questo sfondo, il mandato affidato dal presidente della Repubblica a Carlo Cottarelli certifica una nuova sconfitta della politica e – per la volontà dichiarata dello stesso incaricato e per la sorte che attende in parlamento il suo esecutivo – non può essere che un passaggio dilatorio, seppure obbligato, di ciò che avverrà: elezioni che presumibilmente riprodurranno, radicalizzandolo, lo scenario seguito a quelle del 4 marzo scorso. Ma soprattutto, il pacato discorso del tecnocrate Cottarelli (che ha avuto il buon gusto di impegnarsi a non candidarsi quando verrà il tempo e di pretendere che lo stesso facciano i suoi ministri) sembra destinato a perdersi nel confronto del disagio, del risentimento e della confusione di un Paese che in così larga parte si sta affidando a chi quei sentimenti ha colto e modellato nelle forme della propria (non meno confusa ma feroce) ideologia. La “fine della Grecia”, per l’Italia, potrebbe rivelarsi un rimpianto.

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