Distruzioni per l'uso

Karl Marx a 200 (all’ora)

Non è che avesse sbagliato proprio tutto, il barbuto di Treviri

(Pxhere)
12 maggio 2018
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“Tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria”. Duecento anni dopo la nascita di Karl Marx, a riaffermarne l’attualità basterebbe quest’intuizione poetica dal ‘Manifesto del Partito Comunista’. Poetica, perché nonostante le pretese scientifiche delle sue analisi, il suo più grande lascito è forse di natura umanistica (come lo è quello di ogni grande economista): l’avere descritto l’impatto sull’uomo della rivoluzione permanente imposta dal capitalismo, nella quale pietre millenarie, fedi apparentemente inscalfibili, “piramidi egizie, acquedotti romani, cattedrali gotiche” si sfaldano ed evaporano, spazzate via dal “ritmo del capitale”. Con tutte le angosce e gli stravolgimenti di una velocità che fa rima con brutalità: “La borghesia ha spogliato della loro aura le professioni che fino ad allora erano considerate degne di onore e di rispetto. Essa ha fatto del medico, del giurista, del prete, del poeta, dello scienziato i suoi salariati. Ha strappato il velo di commovente sentimentalismo che ricopriva i rapporti familiari, riducendoli a meri rapporti di denaro”. L’homo faber di matrice rinascimentale, al confronto, era un bimbetto innocente.

Ma si tratta anche di una forza immensamente costruttiva. E infatti Marx ne è addirittura affascinato: la sua vita iniziò fra carrozze e piantagioni e maturò tra fabbriche e vapori. Un salto ancora più grande del passare dal telegrafo allo smartphone. Tanto che la sua – ironia della sorte – diventa a tratti una celebrazione lirica di quella borghesia che fu “la prima a mostrare quello che l’attività umana può fare davvero”. Canali, macchinari, colossi industriali, migrazioni d’uomini e denari verso le frontiere ultime di qualsiasi opportunità. Quella che oggi si chiamerebbe globalizzazione, insomma. Globalizzazione di un capitale che per continuare il suo percorso di moltiplicazione, come un acrobata che non può mai fermarsi senza cadere, “deve far nido ovunque, stabilirsi ovunque, e ovunque tessere le sue connessioni”.

Distruzione creativa

Il cammino di quella rivoluzione, forgiata dalla lotta all’aristocrazia e innaffiata dall’ideale illuminista, è poi continuato. Non secondo il copione apocalittico di Marx, ma ribadendo costantemente la sua natura luciferina (al netto dei moralismi, anche nel senso etimologico di ‘portatrice di luce’). Meglio di tutti lo ha spiegato Marshall Berman. Che il capitalismo se lo vide passare letteralmente su casa sua, quando la speculazione edilizia e una mastodontica autostrada sventrarono il Bronx, consegnandolo al degrado. Berman che spiegò quali fili legavano il Capitale al Faust di Goethe, il Manifesto ai grandi boulevard parigini che terrorizzavano Baudelaire: i fili di una modernità che travolge di continuo l’uomo, quasi fosse solo il relitto di un’epoca preindustriale.

La marcia continua oggi, l’innovazione serve a rianimare costantemente la fenice del capitale, come dimostra il gran parlare di ‘disruption’ che ci arriva dalla Silicon Valley (la stessa ‘distruzione creativa’ descritta da un altro geniale economista, Joseph Schumpeter, in parte erede di Marx).

Da Marx a Keynes

Paradossalmente, però, il libero e gioioso gioco dei mercati non basta a salvare il sistema dal rischio di implosione: le crisi sono lì a dimostrarlo. E qui arriviamo a un’altra grande previsione di Marx: la competizione non è sufficiente a garantire un funzionamento sostenibile dell’economia, come vorrebbero i più ortodossi fra gli economisti neoliberali. Questo perché, nella caccia al profitto, i pesci grandi sbranano i pesci piccoli, alla faccia del pluralismo imprescindibile per un mercato efficiente (solo la competizione impone un uso razionale delle risorse, massimizzando l’utilità di tutti). Certo, il mercato permette di accedere alle ‘giuste’ risorse a chiunque ci arrivi con la ‘next big thing’, la ‘prossima grande idea’. Ma nulla impedisce alla nuova idea di dettare (quasi) qualsiasi prezzo e d’imporre (quasi) qualsiasi condizione ai suoi impiegati: si vedano Google, Amazon, Facebook, Uber.

Marx seppe prevedere tutto questo, e infatti riparte da lui anche chi il capitalismo vuole salvarlo.

Come John Maynard Keynes, il quale comprese che allora solo le regole, l’investimento pubblico e uno stato sociale adeguato potevano evitare al capitalismo di fare la fine che Marx auspicava: dissolversi anch’esso nell’aria.

E siamo alle prese ancora oggi con la contraddizione fra ciò che il capitalismo costruisce e ciò che distrugge. Anche mercato del lavoro, che è poi l’altra faccia di quello dei prodotti: perfino l’‘Economist’ si trova a scrivere che “il proletariato di Marx è rinato come precariato”. In tempi di ‘sharing economy’, ritorna dunque d’attualità anche la riflessione del Capitale sui disoccupati, “esercito industriale di riserva”, utili al padrone per comprimere i salari dei suoi dipendenti. Chiunque abbia fatto lavori mal pagati si sarà sentito ripetere da qualche direttore del personale che “in quest’azienda tutti sono utili, nessuno è necessario”. Modo salomonico (e bieco) per suggerire: vattene pure, ché fuori c’è la fila. Dall’Inghilterra vittoriana alla San Francisco di oggi, ci sono sempre quelli messi in fuorigioco dal ‘sistema’. La funesta profezia di David Ricardo, secondo il quale c’era troppa gente in giro per sfamare tutti, viene rivisitata: è questa eccedenza che fa la fortuna dei capitalisti.

Non so se per Marx sia questo il modo migliore per spegnere le sue candeline: in fondo ha passato la vita a cercare di superare quel sistema. E se si rivedesse adesso, ridotto a una statua che i piccioni usano come gabinetto di fronte ai palazzacci di Chemnitz – la vecchia Karl-Marx-Stadt – i suoi problemi di fegato si farebbero risentire.

I ‘se’ della Storia

Poi bisogna pur ammettere che la sua toppa era peggiore del buco. Strappare ai capitalisti le loro proprietà avrebbe concentrato il potere nelle mani di un solo Leviatano, lo Stato, lastricando la strada per i peggiori totalitarismi: la ‘Via della schiavitù’ che paventava Friedrich von Hayek, pensatore il cui liberismo quasi anarchico è la nemesi della dottrina marxiana.

Ma resta comunque il rammarico che Marx sia stato messo in fuorigioco dalla Storia. Quella arcigna e implacabile che porta la esse maiuscola, ma che sarebbe ingiusto imputargli in toto. D’altronde dici Marx e vedi i gulag di Stalin, perché la storia non si fa con i se. Anche se questa roba l’ho sempre trovata un po’ ottusa: come fai a capire un minimo la storia senza chiederti cosa sarebbe potuto succedere, se qualche virgola del destino si fosse posata da un’altra parte? Se al marxismo non si fosse imputata la cappa plumbea del Patto di Varsavia, ma i suggerimenti dati alle socialdemocrazie, alla gestione keynesiana della disoccupazione e dei mercati? Solo otto persone accompagnarono il feretro di Marx al suo funerale, ma tanti furono gli epigoni che pretesero di imbalsamarne il pensiero. Sarebbe potuta andare diversamente. Ma vai a capire come.

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