Commento

Se la politica ritrova sostanza

Il tempo è galantuomo. La saggezza popolare, non lo scopriamo oggi, contiene semplici verità.

Ti-Press
24 aprile 2018
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Il tempo è galantuomo. La saggezza popolare, non lo scopriamo oggi, contiene semplici verità. A un anno dalle prossime elezioni cantonali (aprile 2019) la maggioranza politica ticinese dovrà (finalmente) affrontare un problemuccio che ha quasi sempre cercato di evitare con fumogeni e presunte priorità: il riequilibrio del potere d’acquisto dei cittadini qui residenti. Detta in altra maniera, una più equa ridistribuzione della ricchezza. Perché non basta garantire le risorse allo Stato per poter dire che il Paese sta bene.

Sarà dunque un anno politicamente interessante quello che ci apprestiamo a vivere, da aprile ad aprile, grazie all’inevitabile dibattito – imposto dal voto popolare – sul salario minimo ticinese. Trovate le risposte giuridiche, grazie al Tribunale federale che ha fatto chiarezza sul principio, resta da decidere – si fa per dire – la sostanza del provvedimento. Il quanto e il come. E toccherà al Gran Consiglio, in primo luogo, fare la scelta definitiva (ricorsi e referendum permettendo) sul progetto presentato dal Consiglio di Stato. Non sarà una passeggiata. Intanto perché già i partner sociali (sindacati e associazioni economiche), convocati dal Dfe a un tavolo di trattative, si sono divisi e la medesima separazione si direbbe riproposta fra i partiti. Stabilito il principio, a quanto dovrebbe ammontare il salario minimo? Non meno di 20,75 franchi all’ora sostengono sindacati e sinistra; non più di 18,75 franchi all’ora rispondono imprenditori e centro-destra. La partita si gioca dunque su una forbice che potrebbe oscillare fra i 3’000 e i 3’500 franchi mensili, date le 42 ore settimanali. Il salario minimo, va detto, è cosa ormai assodata in quasi tutti i Paesi europei (Italia esclusa), come ha riferito ieri ‘Repubblica’ pubblicando un’interessante tabella. Il tetto massimo salariale cambia da realtà a realtà perché calibrato col potere d’acquisto locale. Si oscilla così dai 260 euro mensili della Bulgaria, che salgono a 462 in Croazia, ai 1’998 euro del Lussemburgo o ai quasi 1’500 euro della Francia, giusto per fare alcuni esempi. In Germania il salario minimo ammonta invece a 1’497 euro, mentre in Belgio si situa a 1’562 euro mensili. La forchetta ticinese, come detto, oscilla fra i 2’500 e i 2’752 euro mensili. Tanti, pochi? Questo è il nodo da sciogliere.

Stando al Tribunale federale, il salario minimo cantonale non deve superare il finanziamento pubblico per il sostegno sociale. Perché altrimenti la competenza passa alla Confederazione. Secondo gli esperti di Eurofound (l’agenzia Ue che ha pubblicato i dati ripresi dal quotidiano italiano) la retribuzione stabilita per legge non favorisce la disoccupazione se resta sotto il salario mediano – in Ticino pari a 6’100 franchi mensili – e magari non va oltre il 60 per cento dello stesso. In caso contrario, aggiungono, si corrono due rischi opposti: l’opzione per l’aiuto sociale perché più conveniente o lo sviluppo di lavoro nero perché troppo oneroso.

Le due proposte ticinesi, come si nota, stanno a cavallo dei parametri sopra descritti: un poco sotto il 50 per cento del salario mediano (3’000 franchi) o poco sopra (3’500 franchi). Chi sostiene la seconda ipotesi, va detto, considera l’intero pacchetto sociale oggi a disposizione in Ticino per i meno abbienti. Comunque la si pensi, il tema merita di guadagnare i primi posti dell’agenda nella prossima campagna elettorale cantonale. Così da permettere agli elettori, una volta tanto, di poter tornare a riflette sulla sostanza del proprio vivere e fors’anche sulla dignità e il senso di cittadinanza.

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