DISTRUZIONI PER L'USO

Le bugie del sovranismo

In molti sognano di tornare “padroni a casa loro”. Una prospettiva priva di realismo politico e consapevolezza storica

14 aprile 2018
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Cos’è il sovranismo? La risposta gentile ed enciclopedica è che si tratta di una dottrina politica mirata a conservare o ricostituire la sovranità nazionale, minacciata dagli accordi internazionali e dai poteri forti della globalizzazione. La risposta cattiva è che si tratta di populismo con la cravatta.

Del populismo condivide, anzitutto, la mistificazione storica. Millanta infatti una presunta età dell’oro degli stati nazionali – di solito identificata con gli anni del boom economico – nella quale si era ‘padroni a casa nostra’ e quindi, va da sé, felici e contenti.

Poi sono arrivati un’élite politica che ha tradito il popolo, i baroni della finanza, la globalizzazione, l’Europa, Soros… ed è andato tutto a ramengo. La storiella tace il fatto che quel benessere dipendeva semmai dall’esatto contrario: furono le prove tecniche di globalizzazione, dal Piano Marshall alla Cee passando per Bretton Woods, che creando massicce interdipendenze fra gli stati hanno permesso pace e prosperità. Il sovranismo – che una volta si chiamava, più sinceramente, nazionalismo – è piuttosto una delle forze che incendiò le polveri di due guerre mondiali.

Pesi e misure

Da falsa premessa, errata conclusione: se si stava così bene prima, torniamo indietro. Ricostituiamo, per dirla col sovranista di casa nostra Marcello Foa, “una nuova forma di convivenza internazionale, in cui l’interesse e i poteri nazionali tornino ad avere il loro peso naturale e in cui i trattati internazionali non siano più calati dall’alto ma siano frutto di negoziazioni tra Paesi sovrani e con pari diritti”. Per suonare, suona benissimo. Peccato che non esista un “peso naturale” degli stati, o meglio: se si intende il peso relativo di ciascuna nazione sullo scacchiere internazionale, sono proprio i trattati internazionali a permettere ai più piccoli di non venir schiacciati dalle grandi potenze. Ovviamente ciascun sistema globale riflette gli interessi preponderanti dei suoi attori maggiori: “I più forti esercitano il loro potere e i più deboli vi si adattano” notavano gli Ateniesi di Tucidide, prima di passare a fil di spada i poveri Melii. Ma l’odiata globalizzazione ha almeno il pregio di creare sistemi pacifici per la risoluzione delle dispute (come il Tribunale dell’Aja o il Wto), invece di consegnare subito il verdetto alle armi.

Per farla breve: la pretesa di negoziare “da pari a pari” sul piano internazionale è ridicola, soprattutto per un Paese piccolo come la Svizzera (che non a caso, in passato, ha preferito farsi capitale delle organizzazioni internazionali). Eppure è un’autoillusione molto frequente, come dimostrano per esempio l’enorme ritardo nell’accettare la fine del segreto bancario, l’illusione di ‘Prima i nostri’ e ‘Contro l’immigrazione di massa’, il velleitario ‘reset’ di Cassis all’Ue, l’iniziativa ‘Contro i giudici stranieri/per l’autodeterminazione’. E come segnalano, altrove, la Brexit e il successo elettorale di personaggi come Donald Trump e Viktor Orbán (idoli assoluti dei più sbiellati fra i sovranisti europei). Con l’aggravante che se a saltare sul carro del sovranismo è l’America, storica garante del sistema internazionale, le cose si mettono peggio del solito. Scomodo nuovamente Tucidide: quando si costruisce un impero, “per quanto paia ingiusto l’averlo preso, è certamente pericoloso lasciarlo andare”.

Meglio soli?

Quanto a cosa succeda con l’affermarsi di politiche sovraniste, gli esempi cominciano ad abbondare. I dazi trumpiani hanno innescato un’inutile guerra commerciale con la Cina, che aumenterà enormemente i costi di produzione per le imprese di entrambi i Paesi e peserà sulle tasche dei consumatori locali. Oxford Economics stima che la Brexit costerà alla Gran Bretagna 170 miliardi di franchi all’anno, fra costi diretti e indiretti, ovvero il 6% del Pil. L’economia ungherese non paga il suo sovranismo, ma solo perché per ora l’Unione Europea continua a versarle quei ricchissimi sussidi che vanno ad ingrassare gli oligarchi di Orbán.

Sotto casa nostra, il rischio sovranista è incarnato da un governo che metta insieme Lega e Movimento 5 Stelle. Leonardo Tondelli nota che, se i due movimenti riuscissero a superare i dissidi senza implodere, si arriverebbe all’allineamento perfetto fra “un populismo endogeno, che si è raccolto intorno al M5S e cerca i nemici del popolo esclusivamente al suo interno, identificandoli nella Ca$ta dei politici corrotti e collusi” e “un populismo esogeno che ha occhi solo per le minacce esterne, vere o presunte (l’Euro, la tecnocrazia di Bruxelles, Soros, Bilderberg)”. Ed è lo stesso Tondelli a notare che per questo populismo “la parola più giusta potrebbe essere sovranismo”.

Reazionari

Poi c’è l’aspetto culturale del sovranismo, ancora più osceno perché fomenta una chiusura sociale senza mezzi termini. Scriveva il Ceo di Muzzano un annetto fa: “Perché le differenze culturali, identitarie e politiche non devono più valere? Perché tutti i popoli devono assomigliarsi? Perché la famiglia tradizionale non va più bene e deve essere svuotata di significato?” Non chiedetemi cosa c’entri qui la famiglia, perché non ne ho idea. Ma l’andazzo è quello comune a molti suoi compagni di viaggio, dal Viktator di Budapest ai lepenisti, passando per Salvini e Quadri: ommioddio dove andremo a finire, fra un po’ da Bruxelles e Wall Street ci diranno pure con chi andare a letto.

Ve detto, e non è un corollario da poco, che alcune istituzioni transnazionali ce l’hanno spesso messa tutta per farsi odiare. L’Ue sconta il fatto di avere avviato una prima devoluzione di sovranità nazionale – quella che con l’euro ha posto fine all’autonomia monetaria nazionale – senza però costruirvi attorno un sistema rappresentativo della volontà popolare. La globalizzazione finanziaria, privata di controlli, ha creato la bolla speculativa sfociata nella crisi. Nonostante gli sforzi di Mario Draghi, la linea eurotedesca dell’austerity ha aggravato quella stessa crisi.

Peggio la toppa del buco

Comprensibile, dunque, che in giro ci sia parecchio malcontento. Ma tornare indietro a Westfalia, o ai “bei” tempi in cui la nazione era la misura di ogni cosa, riflette esattamente la fallimentare risposta che negli Anni Trenta si cercò di dare alla Grande Depressione. Ed è difficile capire a che livello di polverizzazione possa fermarsi questa regressione: perché in fondo è la legittimità stessa della democrazia rappresentativa – in cui ai “pochi” è delegata la volontà dei “molti” – che viene messa in discussione. Il rischio non è quindi solo quello di un mondo più diviso, ma anche meno democratico. Che è un bel paradosso, date le intenzioni dei sovranisti: ma di buone intenzioni, si sa, sono lastricate le vie dell’inferno.

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