Commento

'I bambini ci guardano'

Il caso della bimba in affido maltrattata ci interroga. Per la Corte nessuno (né i genitori, né le figure 'istituzionali') ha fatto il suo dovere

Ti-Press
30 marzo 2018
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Una bambina è stata maltrattata. Un’altra. Una di troppo. Per circa due anni la sua vita è stata un incubo. Dal 2010 al 2013 ha conosciuto una quotidianità di umiliazioni, soprusi, punizioni. Eppure, data in affido, le era stata ‘promessa’ un’esistenza diversa, che avrebbe dovuto risarcirla, almeno in parte, di un’infanzia già travagliata. Oggi, certo, ha avuto giustizia. Ma si è dovuti arrivare in un’aula di Tribunale; e con un ‘colpevole’ ritardo. Oggi la Corte delle Assise criminali di Mendrisio ha dato un nome e un cognome alla sua sofferenza, alle sopraffazioni subite. Basta tutto ciò? Voltare pagina non è affatto semplice. Non dopo aver rivissuto quella storia dolente nell’arco di due giornate processuali che hanno solo permesso di immaginare (pallidamente) ciò che ha passato. Lei, però, la piccola vittima si aspettava ben di più dagli adulti, non ora, da subito. E con giusta ragione. «La bambina non si meritava tutto questo»: la madre affidataria lo ha ammesso, certo sul banco degli imputati. Ma le sue parole non sono risuonate unicamente come una strategia difensiva: l’impressione è stata questa. Perché ha confessato (come il padre affidatario) dal primo interrogatorio; perché oggi sembra avere gli strumenti per capire il male procurato. Ma soprattutto perché dei segnali li aveva lanciati nel corso dell’affidamento. Il punto è che non sono stati recepiti, o comunque sono stati sottovalutati da chi è preposto, per obbligo di legge e dovere professionale, a mettere in cima alla lista l’interesse supremo del fanciullo e se, del caso, a denunciare. Invece, c’è chi non ha guardato o non ha visto e non ha interrotto un affidamento che, come ha reso attenti il difensore del padre affidatario, non andava neppure autorizzato. Questo caso è una spia che segnala una falla nel sistema? O finirà con l’essere archiviato come un ‘incidente di percorso’? La rete sociale, insomma, è resistente a sufficienza per rispondere ai bisogni dei più indifesi? Farsi qualche domanda non guasta. Come interrogarsi sulla procedura che stacca a madri e padri, di sicuro volenterosi e animati dai migliori sentimenti, la ‘patente’ di genitori affidatari.

Nella vicenda appena approdata davanti alla Corte il periodo di supervisione della famiglia è durato più del doppio di quanto previsto. Eppure non si è riusciti a evitare l’inimmaginabile. Superficialità? Atteggiamenti equivocati? Sta di fatto che nessuno sembra aver rilevato i campanelli d’allarme. Quanto a tutore e assistente sociale, loro, hanno dato fiducia agli specialisti, si sono difesi. Così si è tentennato; si è temporeggiato. E atteso. Perdendo di vista il fatto che al centro di tutto ci sarebbe dovuta essere la minore. La norma federale, d’altro canto è chiara e consegna ai Cantoni la responsabilità di accertare in modo accurato l’idoneità dei nuclei familiari candidati all’affido. In ogni caso, la storia ripercorsa in aula uno scossone lo ha dato: gli operatori dell’epoca sono stati tutti sostituiti, come ha ricordato il difensore del tutore, che avrebbe voluto far posto sul banco degli imputati ad altre persone a conoscenza della situazione, e rimaste passive.

Il Ticino, comunque, non è il solo cantone chiamato a fare i conti con dei casi limite. È sempre di ieri la condanna a 18 anni di prigione (da scontare) di un padre incestuoso, vittime i suoi otto figli. La giustizia vodese non ha avuto esitazioni. E il governo cantonale ha annunciato, da parte sua, che aprirà un’inchiesta sull’operato dei servizi sociali. Come dire che un esame (magari anche di coscienza) s’impone.

Anche perché i bambini ci guardano.

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