Commento

Quella fiducia senza rimborso

Magari ha ragione Parag Khanna che nel suo recente ‘La rinascita delle città-stato’ cita Svizzera e Singapore come modelli mondiali di pragmatismo e democrazia

13 marzo 2018
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Magari ha ragione Parag Khanna, stratega geopolitico indiano, che nel suo recente ‘La rinascita delle città-stato’ cita Svizzera e Singapore come modelli mondiali di pragmatismo e democrazia, e a proposito della Confederazione elvetica precisa: “Non è la democrazia ad assicurare la perfetta efficienza del Paese, bensì la tecnocrazia”. Il che sottintende anche, se non soprattutto, un ottimo apparato burocratico statale. Poi magari, come sempre, la realtà è un po’ più complicata e anche in Svizzera la conoscenza tecnica deve fare i conti con la politica, o meglio col sentimento popolare che giudica la cosa pubblica. Ne consegue che definirsi aprioristicamente sopra le parti, perché bravi e capaci, non è cosa immediata e scontata. Anzi. Oggi più di ieri quel sentimento sopraccitato dilaga e pesa. Se n’è accorto anche il Consiglio di Stato ticinese con la questione nata attorno a rimborsi spesa e indennità a fine mandato. Dove il quadro sostanziale è decisamente più grave di quello formale.

La forma voleva e vuole che ogni decisione presa in governo passi, su questo oggetto, dal Gran Consiglio tramite il proprio ufficio presidenziale. Così non è stato per anni e così non lo è ancora per le indennità di fine mandato (due salari, oltre a un benservito) e i rimborsi telefonici. Sempre sul piano formale (giuridico) conta sapere se chi doveva controllare (la Gestione) aveva o no gli strumenti per farlo, le necessarie conoscenze. Stabilito poi che non si è consumato nessun reato penale (a meno che si metta in dubbio la credibilità di un’istituzione terza, qual è quella giudiziaria e nella fattispecie il procuratore generale), resta da capire come formalmente se ne può uscire. Se con una richiesta di restituzione o con un “condono”. Lo stabilirà oggi il Gran Consiglio e ogni scelta sarà legittima.

La sostanza dice altro. Intanto c’è una questione di chiarezza e trasparenza. A chiunque tocchi assicurare “la perfetta efficienza del Paese” deve o no poter dimenticare alcune semplici incombenze – tipiche di noi cittadini comuni – come pagarsi il posteggio, badare alla nota del ristorante quando invita un collega a pranzo e via discorrendo, o al contrario non può sottrarsi a tutto ciò? E se sì, a quanto deve ammontare la soglia di agio? A prescindere dalle risposte, qualsiasi scelta non può essere opaca. Deve poter contare, al contrario, sulla massima trasparenza per almeno due motivi. Il primo ha origini lontane. Da sempre in Svizzera gli eletti nelle istituzioni non si considerano una “casta”; anzi, è l’impegno di milizia che nobilita il loro operato. Con un po’ di retorica, va detto, ma il valore resiste. Se poi retribuiti, come i “ministri”, mantengono un profilo bassissimo. Il secondo motivo è direttamente legato al momento che vede, soprattutto in Ticino, aumentare la sfiducia dei cittadini in tutto ciò che “puzza” di “potere”. Per diversi motivi, non tutti razionali. È un dato di fatto imprescindibile.

Questa è la “colpa”. Aver ignorato soprattutto la sostanza, banalizzando la relazione oggi assai conflittuale fra chi pensa di aver perso tutto o quasi e chi viene invece ritenuto privilegiato. Una negligenza generalizzata, perché estesa a quei deputati che avrebbero dovuto leggere i documenti in loro possesso. Le procedure legislative vanno rispettate e chi le propone deve farlo più di ogni altro, ma non comprendere il sentimento diffuso nella società in cui si opera è altrettanto grave per chi ha la pretesa di condurre un Paese verso il benessere e la democrazia. A prescindere dai meriti dei singoli e dal buon governo. Perché sì, è solo la democrazia che garantisce anche la perfetta efficienza di un Paese.

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