Commento

Quei persistenti ‘giudici stranieri’

Il Consiglio Federale propone un Tribunale arbitrale, ma non per questo la Corte di giustizia europea 'scomparirà'

6 marzo 2018
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«Ognuno vuole i suoi giudici. Nessuno [né la Svizzera né l’Unione europea, ndr] vuole giudici stranieri». L’affermazione è di Ignazio Cassis. Fa capire quanto il ministro degli Esteri e l’intero Consiglio federale – dopo anni di martellante discorso dell’Udc – siano ancora oggi sulla difensiva. ‘Reset’ comunicativo, era la promessa. Ha un bel dire il ticinese: nemmeno sul piano semantico è facile premere un bottone, togliere di mezzo quelle parole ‘avvelenate’ che tenacemente dettano i termini del dibattito sulla politica europea, per poi ripartire da zero, forti di altri vocaboli.

I ‘giudici stranieri’ non scompaiono per incanto. Neanche dal tavolo dei negoziati. Per intenderci: quelli sull’‘accordo quadro istituzionale’, che ora – per vantare meglio i vantaggi che la Svizzera trae dai Bilaterali – viene chiamato ‘accordo generale di accesso al mercato’ unico europeo.

Le trattative si trascinano stancamente da più di quattro anni. Il Consiglio federale ha interesse a sbloccarle. L’Ue altrimenti non amplierà le possibilità di accesso della Confederazione al mercato unico europeo. Il governo ora propone di far capo a un tribunale arbitrale indipendente. In caso di controversie, potrebbe essere chiamato a decidere come dev’essere interpretata la parte di diritto comune (o ‘sui generis’) contenuta negli accordi bilaterali.

Niente più ‘giudici stranieri’, dunque? Calma. Per tutto il resto, ovvero le norme di diritto europeo e quelle elvetiche, vale appunto la regola: a ognuno i suoi giudici (se si tratta di interpretare una norma di diritto europeo, entrerà quindi in gioco la Corte di giustizia dell’Unione europea-Cgue).

L’Ue, ha insistito Cassis, in linea di principio è d’accordo con questa soluzione detta ‘arbitrale’ (l’idea invero è stata avanzata dal presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker in occasione della sua ultima visita a Berna). Ma «il diavolo si nasconde nei dettagli», ha ricordato il ministro degli Esteri. Tutta la questione sta nel definire cosa c’è, in un accordo, di diritto comune, di diritto europeo e di diritto svizzero. E quindi dove si situa, in un caso concreto, il confine tra il primo e gli altri due. In altre parole: quale sarà il raggio d’azione del tribunale arbitrale, e quale quello della Cgue. Una cosa è certa: quest’ultima – che comunque nemmeno nel mandato negoziale adottato dal Consiglio federale nel dicembre 2013 avrebbe avuto l’ultima parola in caso di controversia – avrà un suo posto all’interno del futuro, eventuale accordo quadro.

Altre certezze: le misure di accompagnamento alla libera circolazione non sono in discussione; e la Svizzera non riprenderà la direttiva europea sulla cittadinanza. Ribadendo queste ‘linee rosse’, il Consiglio federale evita di prestare ulteriormente il fianco ad attacchi sul fronte interno, da parte di sindacati e forze politiche nazionaliste, e non solo. Un’operazione che sembra riuscita per il momento, stando alle prime reazioni, sostanzialmente positive, provenienti dai partiti (Udc esclusa, ma non si può pretendere troppo).

Ci vorrà ben altro per concludere entro fine anno (questo l’obiettivo) un accordo istituzionale con l’Ue. La Commissione europea ha sì constatato la “ferma volontà” del governo svizzero di progredire sui punti di contrasto ancora aperti. Al contempo, ha però citato tra questi il ruolo della Cgue (ieri a Berna rimasta nell’ombra del ‘tribunale arbitrale indipendente’...) e gli aiuti statali (sovvenzioni, agevolazioni fiscali, partecipazioni aziendali), una questione sin qui rimasta sottotraccia, ma foriera di possibili tensioni tra Confederazione e Cantoni. Per dire: non ci sono soltanto i ‘giudici stranieri’ a rendere tortuosa la via bilaterale.

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