DISTRUZIONI PER L'USO

#MeToo: femminismi ‘vecchi’ e nuovi

Le provocazioni di Catherine Deneuve hanno spaccato il movimento #metoo. Dietro ci sono (anche) differenze sociali e d’età.

Deneuve Keystone
3 febbraio 2018
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Da mesi si parla del caso Weinstein, dell’ondata di indignazione che ha scatenato, a colpi di hashtag come #metoo e #balancetonporc, “denuncia il tuo porco”. Una campagna che ha il merito di richiamare l’attenzione sul tema delle molestie sessuali, che continuano a ferire e umiliare un numero esagerato di donne (che poi sarebbe un numero esagerato anche se fosse una sola, chiaro).
Va detto che ultimamente il dibattito era degenerato nella solita canizza di slogan contrapposti, “tutti porci” contro “tutte battone”. A smuovere le acque la provocazione di alcune intellettuali e artiste francesi, che in una lettera aperta su ‘Le Monde’ hanno difeso “la libertà d’importunare, indispensabile alla libertà sessuale”. Lettera che ha fatto rumore anche perché fra le firmatarie spicca un’icona della libertà femminile: quella Catherine Deneuve che già nel 1971, quando in Francia l’aborto era un reato, firmò il manifesto ‘Je me suis fait avorter’ di Simone De Beauvoir.

Due femminismi

Succo della lettera: non generalizziamo. Nessuno vuole difendere gli stupratori, ma si demonizzano anche approcci meno violenti: “Il corteggiamento insistente o maldestro non è un reato, e la galanteria non è un’aggressione maschilista”. Si rischiano una caccia alle streghe e “un odio verso gli uomini e la sessualità”. E poi non si può rovinare la reputazione di un uomo con un tweet: come ha poi precisato la Deneuve, “sì, amo la libertà. Quello che non mi piace è vivere in un’epoca in cui ciascuno si sente in diritto di ergersi contemporaneamente a giudice, giuria ed esecutore.” Le firmatarie sono state accusate di essere “false femministe” anche se, come ha notato Ivo Silvestro su queste pagine (11 gennaio), “gli argomenti delle ‘false femministe’ sono tutt’altro che estranei alla storia del femminismo, e anzi sono parte della cosiddetta ‘terza ondata’ che, a partire dagli anni Novanta, si è contrapposta al femminismo radicale rivalutando la femminilità e, soprattutto, la sessualità.” Restano chiaramente aperte alcune enormi questioni: dove finisce l’avance e comincia la molestia? E a che punto è doveroso richiedere alla donna un consenso esplicito ai propri approcci? Ma qui mi interessa, piuttosto, evidenziare come le fratture del fronte #metoo riflettano dinamiche sociali più ampie e profonde.

Uno scontro generazionale

Il conflitto fra i due femminismi ha una forte connotazione generazionale: da una parte, le Alyssa Milano e Asia Argento di questo mondo sfidano non solo il vecchio patriarcato, ma anche quelle donne che per generazioni si sono lasciate, a loro dire, sottomettere. Donne che peccherebbero di indulgenza quasi complice nei confronti dei potenziali molestatori. Alle quali si oppone un’azione collettiva, liberatoria, di denuncia. Dall’altra parte ci sono le precedenti generazioni, avanguardia della liberazione, che sembrano dire: chi siete voi per insegnarci come si “gestisce” un uomo? Non abbiamo bisogno di Twitter per difenderci, semmai ci preoccupa che voi puritane soffochiate ogni relazione. Come dire: siete giovani e donne, ma state diventando più paternaliste dei nostri padri. Un cri de coeur liberatorio, per noi uomini: eppure viene da pensare che la verità stia nel mezzo, e che se sorgerà un modo più equo di relazionarsi fra i sessi, sarà proprio grazie al confronto fra questi estremi. Noi, qua, si aspetta.
David Niven e il barbone
Oltre a quella generazionale, c’è un’altra questione in ballo: quella delle differenze di classe. Non tutte le donne che hanno partecipato a #metoo sono celebrità. I social sono stati utilizzati soprattutto da persone comuni, che si sono fatte coraggio e si sono esposte per denunciare episodi che vanno ben oltre la pacca sul sedere. Persone che non godono certo dei privilegi e della visibilità con la quale alcune star possono rimettere in discussione l’establishment. Nota amaramente Alberto Ventura: “Da una parte ci sono le Catherine Deneuve, che non rischiano certo di essere importunate sull'autobus: quello che hanno in mente è il corteggiamento sopra le righe di un David Niven che ha bevuto un brandy di troppo. Ma dall'altra ci sono le ragazze della classe disagiata, il cui movimento di mobilità ascendente si è arenato nelle vie di San Salvario o di Barbès-Rochechouart, mentre un barbone ubriaco piscia sul muro a due passi.” Certo, in entrambi i casi si tratta di contrastare la prevaricazione maschile. Ma fra un’apprendista commessa e Catherine Deneuve ce ne passa; lo scontro fra i due femminismi è anche uno scontro fra persone il cui potere di contrattazione sociale è ben diverso, per quanto sempre asimmetrico rispetto alla controparte maschile.

Vita e arte

Infine c’è la questione di come si vuole trattare la carriera di determinati artisti. Perché è vero che la condotta privata di Woody Allen, Louis C.K., Roman Polanski è difficilmente condonabile. Ma è altrettanto vero che non si può liquidare l’opera di un artista confondendola con la sua condotta privata. Si tratta di una discussione annosa, che sfiorò il Ticino con la discutibile campagna contro la presenza di Polanski al Festival di Locarno. E qui la Deneuve coglie nel segno: “Decideremo che Leonardo è un pedofilo e cancelleremo le sue opere? Rimuoveremo i dipinti di Gauguin dalle gallerie? Distruggeremo gli schizzi di Egon Schiele?”. Se la tendenza fosse questa, avrebbe ragione proprio Woody Allen: “La vita non imita l’arte, ma la cattiva televisione.”

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