Commento

'Fuoco e furia' racconta Trump, ma non contate su quel libro

Cosa racconta del Presidente il best seller di Michael Wolff? Ignoranza, incompetenza, inadeguatezza, narcisismo... poco di nuovo, insomma

8 gennaio 2018
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Cosa c’è in “Fuoco e furia”, il best seller di Michael Wolff, che già non sapessimo di Donald Trump? Davvero poco. Ignoranza, incompetenza, inadeguatezza, narcisismo, infantilismo, instabilità, incapacità di concentrarsi anche per pochi minuti, refrattarietà a qualsiasi tipo di lettura, teledipendenza compulsiva a rischio di analfabetismo di ritorno. No, niente di veramente nuovo. E nemmeno sorprende che le fonti da cui l’autore (per la verità anch’egli controverso per metodi d’indagine giornalistica un po’ spicci) ha raccolto tutti questi devastanti giudizi stiano in quel covo di vipere che dal primo momento hanno circondato colui che praticamente definiscono l’“idiot in chief”, e che invece tronfiamente si considera non solo stabile e intelligente, ma addirittura “un genio”.

Al n. 1’600 della Pennsylvania Avenue, una corte dei veleni, un ring del tutti contro tutti, una rissa permanente che in meno di un anno hanno già provocato l’allontanamento, imposto o volontario, di circa un terzo del primo cerchio dell’amministrazione (che peraltro non è ancora al completo).

In testa ai rottamati, quello Steve Bannon, l’ultraconservatore “anima nera” della vittoriosa campagna elettorale, che sarebbe stato il principale ispiratore del giornalista Wolff, e che si permetteva di dare della ‘puttana’ a Ivanka, sua rivale e ambiziosa figlia maggiore del capo della Casa Bianca, ormai anche lei sull’orlo del “Russiagate”.

Per nulla divertente, ma decisamente inquietante, il ritratto della leadership di quella che rimane la prima potenza planetaria, con oltre seimila testate nucleari, e un presidente che in modo bambinesco replica al dittatore nord-coreano che il suo bottone atomico “è più grande e più potente”.

Eppure non saranno le pagine di “Fire and Fury” a rovesciare le sorti di questa presidenza, che merita soprattutto l’aggettivo di pericolosa: per la sua natura divisiva, l’ostinazione nel voler allargare il fossato intercomunitario e interrazziale, lo sdoganamento del suprematismo bianco e razzista, e sul piano internazionale la politica della prepotenza nei confronti degli alleati, delle minacce verso i più deboli, dell’ottusa ostilità al multilateralismo, delle mosse apparentemente ispirate più all’ossessione anti-Obama che a un nuovo disegno politico-strategico. Nonostante tutto, Donald Trump ha ancora abbastanza alleati a fargli da scudo: un elettorato testardamente convinto di aver scelto l’uomo del suo riscatto sociale, un mondo economico-imprenditoriale-finanziario beneficiato dalla generosità dei suoi tagli fiscali e dalla deregolamentazione, la colpevole acquiescenza del partito repubblicano, persino un Putin politicamente trionfante e uno Xi Jinping sornione che hanno tutto l’interesse a non contrastare un capo dello Stato americano che, al di là della retorica, è stato finora molto generoso nel lasciare a russi e cinesi l’iniziativa diplomatica sullo scacchiere internazionale.

No, non sarà un libro, probabilmente nemmeno un impeachment, e ancor meno il palmarès mondiale delle bufale a condannarlo.

Ma, come ammonisce il Nobel Paul Krugman, soltanto le urne potranno farlo. Monito per il partito democratico.

Che a due anni dall’imprevista sconfitta elettorale, e a dieci mesi dalle Midterm election, appare ancora stordito, disoriento, privo di profilo, strategia e leadership.

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