Commento

Piazza finanziaria fragilizzata

(Gabriele Putzu)
18 novembre 2017
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I tempi d’oro della piazza finanziaria ticinese, è noto, sono finiti da tempo. La struttura bancaria, come emerge dall’ultima statistica molto dettagliata resa nota negli scorsi giorni dal Centro di studi bancari di Vezia, si è ulteriormente indebolita. Alla fine del 2016 mancavano all’appello altri quattro istituti che hanno o lasciato il Ticino (Lombard Odier; Maerki Baumann & Co. e Banque Heritage) oppure sono stati acquisiti da un’altra realtà (Société générale di Lugano rilevata dalla Axion Swiss Bank). In totale quindi erano presenti 45 banche, quando un anno prima erano ancora 49 e dieci anni prima – a questo punto un’era geologica fa – 77 banche.

Con il processo di razionalizzazione del mercato è proseguito anche quello dell’occupazione diretta: a fine 2016 erano 5’894 i dipendenti delle banche, mentre un decennio fa erano 7’538. In totale sono andati perduti 1’644 posti di lavoro, cifra che non comprende ancora gli esuberi degli scorsi mesi della Bsi che nel frattempo – dopo il pasticciaccio brutto di Singapore – è stata integrata da Efg International.

Per certi versi un consolidamento del settore non è sempre negativo, in quanto pone le premesse per strutture aziendali più solide e quindi in grado di creare ulteriore occupazione e valorizzare le competenze esistenti. In un periodo storico caratterizzato dal calo della raccolta dei capitali – soprattutto quella crossborder – e dalla pressione regolatoria nazionale e internazionale, il rischio è invece, paradossalmente, quello di un’accresciuta frammentazione: lo dimostrano i dati in crescita del parabancario, con aziende (un migliaio tra gestori di patrimoni, di fondi e consulenti) che danno lavoro a 2’554 addetti. Strutture composte in media da 2,5 persone, che sono il risultato del processo di ristrutturazione a cui è stata sottoposta l’intera piazza finanziaria nell’ultimo decennio e che dimostrano l’incertezza strategica verso cui naviga il settore. Parecchie figure professionali espulse in questi anni dal sistema bancario classico si sono ritrovate di fatto a reinventarsi un lavoro in un ambito toccato parzialmente dalle riforme ma che in un prossimo futuro sarà costretto a riorganizzarsi. Il parabancario ha avuto un ruolo per così dire di ammortizzatore sociale, evitando di far aumentare il numero degli iscritti alle liste di collocamento ma prima o poi i nodi potrebbero venire al pettine.

Se a questo aggiungiamo anche l’avvento della digitalizzazione, un’evoluzione sì naturale dell’economia ma che sta avvenendo a una velocità tale che potrebbe lasciare dietro di sé – metaforicamente – molti morti e feriti, si ha un quadro ancora più chiaro dell’estrema fragilità del comparto. René Chopard, direttore del Centro di studi bancari, parla giustamente di una piazza “stretta tra l’evoluzione tecnologica ‘apolide’ e le dinamiche normative nazionali e internazionali” che stanno ridisegnando il sistema finanziario ticinese dall’esterno. Insomma, il cambiamento di paradigma (la fine del segreto bancario) è stato di fatto imposto da fuori e mal sopportato dagli attori locali. In passato sono state spese troppe risorse ed energie per cercare di rallentare cambiamenti legislativi che erano nell’aria da anni e adesso che tutto è avvenuto ci si trova – più che nel resto della Svizzera – spaesati e spiazzati dagli avvenimenti. Sarebbe stato meglio pensare per tempo di riorientare il settore, troppo dipendente dal mercato italiano. Le idee non dovrebbero mancare.

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