Commento

Dopo la guerra un’altra guerra

15 novembre 2017
|

C’è la guerra dopo una guerra. In quella ampia striscia di Medio Oriente che dall’Iran e dall’Anatolia turca scende verso Gaza e oltre, questa è la regola da almeno un secolo. Finita (davvero?) l’offensiva dell’Isis e contro l’Isis; finita (davvero?) la tragedia siriana, un altro conflitto si sta predisponendo nella micidiale e generale rissa di una regione perennemente priva di stabilità. Si sapeva: “normalizzare” la Siria col fuoco e col sangue e (forse) sconfiggere i non irresistibili tagliagole di Al Baghdadi non avrebbe affatto liberato il campo dai volonterosi signori della guerra. Anzi, li avrebbe schierati uno di fronte all’altro, senza più false intermediazioni.

Ora ci siamo. Sunniti e sciiti, Arabia Saudita e Iran, si avvicinano a grandi passi verso l’orlo del baratro. Che potrebbe rivelarsi ancor più tragico di tutti i drammi recentemente messi in scena nella regione. C’è l’indiscutibile attivismo di Teheran; ma, soprattutto, c’è l’impaurita reazione di Ryad, intenzionata a ristabilire un’autorità politico-religiosa che negli ultimi anni è stata progressivamente corrosa da contestazioni non solo interne. Una restaurazione incoraggiata dagli Stati Uniti di Donald Trump. Il quale, spezzato l’esercizio di equilibrismo tentato da Obama in qualche modo “riabilitando” il dialogo con i successori di Khomeini (che ha condotto all’accordo sul nucleare), ha gettato tutto il peso della potenza americana sul piatto saudita dell’instabile bilancia.

Operazione di cui si è auto-attribuito la gestione il giovane erede al trono Mohammed bin Salman, che in una sorta di “notte dei lunghi coltelli” ha scavalcato gli ultraottantenni della dittatura wahabita e alcuni principi sgraditi, accusati di corruzione, e finiti nelle patrie e sembra dorate galere.
L’ultimo terreno di confronto e scontro scelto dal nuovo uomo forte di Riad è il Libano. Non a caso. L’ex Svizzera del Medio Oriente (una definizione che in realtà non ha mai corrisposto alla sostanza e ai profondi squilibri del puzzle libanese) è un mosaico inter-etnico e inter-religioso fragilissimo; da decenni prigioniero delle ambizioni annessionistiche della Siria e della potenza militare di Israele; nazione pacificata nelle sue componenti sunnite, sciite, cristiane da un accordo di coabitazione di cui gli Hezbollah filo-iraniani sono parte imprescindibile.

Accade dunque che il primo ministro libanese Saad Hariri, capofila della comunità sunnita – il padre Rafik assassinato 12 anni fa per mano siriana –, cittadino libanese ma con passaporto anche saudita, annunci improvvisamente da Riad le sue dimissioni, accusando Teheran di voler destabilizzare il Paese dei cedri servendosi appunto dell’Hezbollah sciita. Dimissioni che, secondo più di un osservatore, gli sono state praticamente imposte dall’Arabia Saudita. Obiettivo, provocare un casus belli nei confronti di Teheran. Operazione che, secondo gli ultimi sviluppi, potrebbe anche non riuscire. Ma che illustra perfettamente la strategia di Riad, priva di una forza militare all’altezza delle sue ambizioni: creare nei confronti dell’Iran una tensione che, se portata ai limiti estremi, costringerebbe Stati Uniti e soprattutto Israele ad intervenire, replicando quella guerra per procura già sperimentata in Siria e che nel caso del Libano sarebbe ancora più incendiaria.

La miccia libanese rimane cortissima. Per capirlo basta riflettere sulle parole del premier Netanyahu: “Se arabi e Israele sono d’accordo contro Teheran, il mondo dovrebbe ascoltare”. L’irresponsabilità al potere.

Resta connesso con la tua comunità leggendo laRegione: ora siamo anche su Whatsapp! Clicca qui e ricorda di attivare le notifiche 🔔