Commento

Principio speranza : che cosa vuol dire oggi fare politica? E che cosa essere buoni cittadini?

Moi Williams, 59 anni, senza fissa dimora, Los Ang
(Jae C. Hong)
13 novembre 2017
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Nell’uscire dalla modernità, da una società ‘disciplinare’ regolamentata secondo norme stabili in contesti relativamente stabili, la politica trova parole in grado di tenere vivo un dialogo con i cittadini considerando le trasformazioni che riguardano lavoro, identità e appartenenza, ambiente, nuove migrazioni? Cosa vuol dire, oggi, fare politica? Nel suo essere e agire per la coesione sociale, la politica considera le pratiche, i vissuti, le esperienze nate dal basso? Prende in carico la crescente diseguaglianza socio-economica che già Ralf Dahrendorf, a metà anni 90, metteva in evidenza, parlando di una “società civile sotto pressione”? Quale chiave di lettura per fare sintesi dei processi, nel rapporto tra soggetto e collettività? All’inizio dell’estate scorsa, Mario Ferrari indirizzava una lettera aperta a Michele Serra sul quotidiano ‘la Repubblica’, segnalando un deficit politico, del fare politica, rispetto al tema cruciale dell’ecologia. Conosciamo il percorso svolto da Mario Ferrari quale realizzatore dell’impresa sociale in Ticino, dentro valori umani e professionali che hanno lasciato il segno. Il testo sottoponeva al lettore una questione, credo, di rilievo: per quale ragione in questi ultimi anni la sinistra italiana ha trascurato il tema dell’ecologia, invece di farne uno dei punti cardine del suo progetto politico? (Sempre che ne abbia uno, visti gli ultimi esiti). Serra, pur condividendo i termini della riflessione posta dall’ interlocutore, non è andato, a mio parere, oltre.

Una visione più ampia dell’ecologia

In effetti, è singolare e colpisce che una tradizione di pensiero e azione che in vari tempi e modi vedeva dialogare sui temi dell’ecologia l’area della sinistra italiana con quella dei verdi (qualche tempo fa ricordavo la straordinaria figura di Alexander Langer) non sia stata in grado di realizzare una piattaforma politica e sociale per affermare la sua centralità. Walter Veltroni, sempre su ‘la Repubblica’, qualche settimana fa sottolineava quanto è prioritario per l’Italia e non solo (pensiamo alla situazione del territorio ticinese) portare avanti un approfondito e mirato ragionamento su un’azione politica dove la cura per i beni comuni, il rispetto per ogni creatura, la vivibilità degli spazi, la tutela del paesaggio e altro ancora, possano generare un salto di qualità nel nostro pensiero.

Ma la lettera al giornale contiene e apre, a mio avviso, ulteriori domande intorno al senso della vita nella problematicità del rapporto tra persona e società, stretti e persi come siamo fra le nostre esistenze frammentate e il desiderio, consapevole o inconscio, di comunità. A esempio, come vivono e si percepiscono le persone dentro periferie disadorne e stratificate che danno luogo a conflitti tra poveri e nuovi poveri (non-persone), volti senza storia, rispetto a quella città della memoria e dell’incontro di cui ha parlato Marc Augé? Se la politica arriva a essere, nel migliore dei casi, “buona amministrazione”, si dimentica che l’idea dell’agire politico è anche visione, sfida, progettualità, dal latino ‘proicere’, che significa tendere, scagliare oltre: fare del nostro sguardo e del linguaggio una cosa viva, di cuore e mente. Il declino dei partiti politici tradizionali non è forse la dimostrazione di un deficit nel linguaggio e nelle proposte rivolte alla stessa società civile? L’essere cittadini comporta un’assunzione di responsabilità traducibile in atti di opposizione, critica e rivolta. Una rivolta culturale e politica, come scrive Amartya Sen, per prendere coscienza che “spesso nell’affrontare i problemi sociali e politici si sottovalutano la portata e l’efficacia di un libero dialogo” quindi, di “un dibattito libero e aperto”.

Con gli altri, non per gli altri

Alla questione ecologica, si affianca quella delle migrazioni recenti che, al pari della prima, viene affrontata in termini di sola emergenza, senza comprendere che si tratta di fenomeni di lungo periodo. Accogliere, significa creare percorsi che possano trovare una condivisione reale nell’assetto di un Paese, nelle mentalità che lo formano; non è sufficiente essere per l’accoglienza – questo, certo, è il primo gradino – ma è necessario organizzarla in una forma virtuosa, comunicabile, sostenibile nel tempo. Mettendosi in gioco. È quanto fanno preti di frontiera e laici, credenti e non, che abbiamo incontrato qualche mese fa e di cui si è scritto su questo giornale, dando un titolo che poteva riassumerne pensiero e azione: ‘Terre di mezzo’. Che vuol dire fare esperienze di vita con e non per gli altri, inserendo nel nostro linguaggio le preposizioni “tra”, “fra”, così poco utilizzate.

Parole nuove

Populismo, nazionalismi, fanno leva su un vuoto palpabile; è la disgregazione che attraversa metropoli e città, l’isolamento di una pluralità di persone di diverse generazioni senza un presente e un futuro possibile. Contrastarne lo sviluppo chiede di trovare parole nuove, radicali, in grado di creare convergenze nei diversi soggetti politici, cosa che proprio l’ecologia insegna pensando al tema dell’interdipendenza e delle relazioni, non certo a quello dell’esclusione e dello sguardo parziale, chiuso. Vuol dire esplorare e condividere significati, pur nelle difficoltà esistenti, che prendono forma dall’esperienza quotidiana di chi è emarginato e di chi si sente “borderline”. E forse, lo siamo in tanti.

Nel suo ‘Principio speranza’, Ernst Bloch invita a non assumere il mondo com’è, ma a leggerlo nei mutamenti e nelle crisi. A volte, raccontiamo scoraggiati “dei giovani” (che sono diventati una categoria), mentre dovremmo fare nostra la parola “speranza”, difenderla, darle un destino politico. Come pensiamo possano averla loro, se l’abbiamo persa noi?

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