Commento

Donald Trump scopre il mondo

7 aprile 2017
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Se Pechino non provvede a mettere in riga Pyongyang, ci penserà lui. Se l’Onu non punirà Assad (della cui permanenza al potere si era da poco detto incurante), lo farà lui. Donald Trump ha infine scoperto il mondo. Ma il candidato che aveva assicurato che mai avrebbe impegnato gli Stati Uniti in guerre che non li riguardassero in solido, non ha cambiato idea: semplicemente, come attestano la sua biografia e i mesi dacché risiede alla Casa Bianca, e come si dice anche in dialetto, Donald Trump non ha idea. Scambiando per visione la propria egomania, il presidente della nazione più potente della terra può far danni planetari.
Se alle sue parole seguiranno azioni corrispondenti, davvero i teatri di crisi mondiale muteranno drasticamente. Perché minacciare “lezioni” alla Corea del Nord significa coinvolgere Pechino in un azzardo enorme. Mentre dicendo Siria s’intende Russia (e, di sponda, Iran). Ma Mosca non è Città del Messico, con cui prendersi libertà da bullo; e Xi Jinping non è un primo ministro australiano al quale sbattere il telefono in faccia.
Anche limitando il discorso ai due scenari accennati, si capisce bene lo smisurato potenziale destabilizzante di un intervento diretto degli Usa. E bisogna intendersi: anche qualora lo si ritenesse risolutivo o doveroso. Togliere di mezzo Kim e le sue atomiche, Assad e i carnefici al suo comando, potrebbe persino essere un’azione meritoria. Ma governare il caos conseguente (come il bagno di sangue in Siria prefigura) richiederebbe una superiorità strategica e intellettuale di cui non c’è traccia a Washington, semmai l’opposto. L’iper-riflessivo Obama lo aveva ben presente, al punto d’aver semmai peccato d’omissione, e concorrendo oggettivamente alla decomposizione del quadro.
Il buco nero che è oggi la Siria sembra attrarre e distruggere anche le più solide razionalità, intimidire e paralizzare le più pavide politiche estere (Consiglio di sicurezza compreso), esaltare il cinismo di più lunga tradizione, aizzare gli istinti più crudeli; ma anche smascherare i bluff: “visto” quello di Erdogan e, staremo a vedere, quello di Trump.
La dinamiche scatenate dalla disgregazione siriana (irradiatesi in forma di migrazione di massa e di terrorismo jihadista) hanno prodotto più perdenti che beneficiari, e questi ultimi ben precari, a dispetto del tronfio modo di atteggiarsi: da Assad, al sicuro soltanto nel ridotto alawita attorno a Damasco, a Putin, al quale cominciano a saltare le metropolitane. E il Trump che prima ammicca al raìs e poi lo accusa di macelleria umana, e che professa ammirazione per il secondo, ricevendone in cambio fredda degnazione, non sa di che cosa parla quando minaccia di “pensarci lui”. Forse un barlume di lucidità era stata l’ammissione del suo portavoce, nelle ore seguite all’attacco chimico su Khan Sheikhun. La Casa Bianca, aveva detto Spicer, non è pronta a parlare del prossimo passo sulla Siria. Poi sì, si è messa a parlare, e addio.

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