Commento

Pennellate, sì, ma di retorica

15 marzo 2017
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“A lavorare, andate a lavorare”. Intonatelo, scandendo bene sillaba dopo sillaba. Ne otterrete un coretto tipico degli stadi in cui giocano squadre in palese difficoltà, che non ne beccano una, che la vittoria non sanno più dove stia di casa. Il Lugano è tra queste? No, nella maniera più assoluta. Il Lugano è una squadra in salute, con limiti evidenti parzialmente mascherati da un rendimento che nel girone di ritorno è buono. Quantomeno superiore alle attese. Tant’è vero che si è cominciato a parlare di Europa League, dopo che per mesi la cantilena che si andava ripetendo alla noia era quella della salvezza.
La sconfitta a Basilea (chi non perde, a Basilea?), le vittorie in scontri diretti pesantissimi contro San Gallo, Grasshopper e Losanna, i pareggi contro il Vaduz e il Lucerna. Un ruolino invidiabile. Chiedere agli stessi Losanna o Vaduz se non farebbero a cambio.
Poi succede che a Thun la squadra inciampi malamente, e tutto quanto di buono è stato costruito – tanta roba per una squadra come il Lugano – venga spazzato via dall’ira del mister, assurto a maestro di vita, oltre il ruolo di coach. Manco i suoi ragazzi si fossero macchiati di alto tradimento. Il quale Tramezzani prima si accolla l’intera responsabilità, come imporrebbe il suo ruolo (per quanto non sia scontato che accada), salvo però portare tutti a lezione di vita vera, a vedere “come si lavora per davvero”.
Come se il calcio non fosse un lavoro. Privilegiato, con orari ridotti e stipendi sopra la media, certo. Nessuno nega che lo statuto del calciatore di Super League sia privilegiato, ma pur sempre lavoro è. Meno nobile di altre professioni, ci mancherebbe. Ma pur sempre un lavoro, per i più fortunati. O per chi se lo è meritato faticando, come lo stesso Tramezzani, per sua stessa ammissione operaio del pallone che si è costruito una bella carriera ad alti livelli lavorando duramente. Più duramente di tanti altri colleghi più talentuosi. Questa sua lodevole attitudine lo eleva come uomo, gli fa onore come atleta. Ne fa un allenatore con la cultura del lavoro. La può, anzi la deve insegnare, trasmettere, senza però eccedere nella retorica insita in quella che è stata spacciata per una lezione di vita. Meglio sarebbe stata una tirata d’orecchi, in spogliatoio o in campo. Una sanzione più consona alla “gravità” dell’accaduto (gravità è volutamente tra virgolette).
Possibile che basti una sconfitta, tra l’altro contro un avversario in buona forma, su un campo particolare come il sintetico della Stockhorn Arena, per pretendere da tutti un bagno d’umiltà? La lezione di vita è fuori luogo. A maggior ragione dopo essersi assunto pubblicamente l’intero carico di responsabilità, come fatto dal mister. Vogliamo credere che i calciatori del Lugano, molti dei quali ancora all’inizio di una carriera che al momento è poco più di un’eventualità, non sappiano che si giocano il futuro professionale? Che ci sono pittori che al mattino presto vanno in cantiere? O operai che oggettivamente faticano di più per compensi molto meno cospicui? Capiremmo, se parlassimo di una crisi, di una settimana in cui nessuno ci ha messo la gamba. Ma lo stesso Tramezzani ha detto di non aver avuto avvisaglie di rilassamento.
E allora di che parliamo? Di insubordinazione? Quella di Thun è una sconfitta, all’interno di un percorso positivo. Una macchia che il prossimo impegno può già lavare via. Una battuta a vuoto al momento isolata, alla quale è stato dato un peso che non può avere. Cavalcando valori che i calciatori possono anche perdere di vista, talvolta. Ma prima di avere la prova, hai voglia accumulare indizi...

Una conquista
Suvvia, di calcio si tratta, soltanto di calcio. Concediamo al Lugano di perdere una partita, anche malamente. Che Tramezzani richiami pure all’ordine i suoi in campo, in allenamento, anche presto al mattino, perché no. Ma la sceneggiata della trasferta punitiva in pullman la si tenga semmai per momenti in cui il bastone sarà veramente l’unico strumento in grado di rimettere il gruppo sui binari Al momento, proprio grazie al buon lavoro dell’allenatore italiano, la situazione è tranquilla, serena, pacifica. È una conquista, la si goda.
Non era il caso di alimentare il dibattito circa l’opportunità, né di punire ben oltre i loro demeriti i protagonisti del 2-5 di Thun, accusandoli di scarso attaccamento alla maglia. Trattandoli come degli ingrati distratti dalle voci di mercato che non onorano la maglia che indossano. Quanti paroloni, quanta enfasi.
Alle difficoltà, si reagisca con raziocinio. Il presidente Renzetti, che non sempre in passato ha brillato per distacco e sobrietà, lo ha fatto. Stavolta ha scelto di restarne fuori, in maniera opportuna, evitando di innescare polemiche o inutili strumentalizzazioni. Scelta giusta, la sua.
Tornando all’impresa di Davesco assurta agli onori della cronaca suo malgrado, limitiamoci alle pennellate dei suoi dipendenti. Non c’era bisogno di quelle intrise di retorica di chi è pagato per fare un altro tipo di lavoro. A ciascuno il suo. Ai pittori il pennello, all’Fc Lugano gli scarpini e il pallone. Con le vittorie e le sconfitte. Anche quelle brutte.

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