Commento

Piccola chance o nessuna chance

1 marzo 2017
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A 22 anni dall’ultima riforma dell’Avs, dopo 145 ore di dibattiti in Parlamento, due letture da parte di ciascuna Camera e 51 rapporti sfornati dall’Ufficio federale delle assicurazioni sociali, il progetto ‘Previdenza per la vecchiaia 2020’ naviga in cattive acque. Ieri il Nazionale non si è mosso di un millimetro (vedi a pagina 5). Martedì prossimo è probabile che il Consiglio degli Stati faccia altrettanto. Si andrà quasi certamente in conferenza di conciliazione: qui sinistra, Ppd e Pbd sembrano avere buone chance di spuntarla. Ma poi sarà ancora un’altra storia (o sempre la stessa): il compromesso dovrà in seguito superare l’esame di entrambe le Camere, le votazioni finali e una ormai quasi scontata votazione popolare che porterà sull’insieme del ‘pacchetto’, non soltanto sulla parte sottoposta a referendum obbligatorio (l’aumento dell’Iva per finanziare l’Avs). Tutti gli occhi, sotto la cupola di Palazzo federale e fuori, sono già puntati lì. Sette anni fa una riduzione del tasso di conversione Lpp dal 6,8% al 6,4% – equivalente a un taglio netto delle rendite del secondo pilastro – fu sepolto sotto una valanga di ‘no’ (73%) alle urne. Uno dei pregi dell’inedito progetto globale (primo e secondo pilastro assieme) lanciato nel 2012 da Alain Berset è di aver metabolizzato la lezione: in votazione popolare una riforma della previdenza vecchiaia passa solo se il livello delle rendite viene garantito. Più in generale: se i peggioramenti (come alzare a 65 anni l’età di pensionamento delle donne, in questo caso) vengono in un modo o in un altro bilanciati. Anche il Parlamento nel frattempo l’ha capito. Dallo scorso autunno tutti i partiti sono d’accordo sul principio che sta al cuore della riforma 2020: bisogna compensare la riduzione del 12% delle rendite del secondo pilastro causata dal previsto abbassamento dal 6,8% al 6% del tasso di conversione Lpp. Entrambi i modelli in gioco – compensazione unicamente nel secondo pilastro (Nazionale) oppure anche nel primo, tra l’altro con un supplemento di 70 franchi mensili sulle nuove rendite (Stati) – permettono di farlo. E ognuno di essi presenta sia vantaggi che svantaggi. Tuttavia, alla luce del recente ko subito dalla riforma dell’imposizione delle imprese (nel quale ha pesato la retorica contrapposizione fra ‘il basso’ e ‘l’alto’, fra la stragrande maggioranza dei cittadini e i pochi privilegiati capitani d’azienda), il modello portato dal centro-sinistra sembra tutto sommato la miglior carta che il Parlamento possa giocare di fronte al popolo. Non solo perché è “tecnicamente meno complicato” o “più facile da spiegare”, come dicono i suoi sostenitori. Il supplemento di 70 franchi (più l’aumento al 155% del tetto per le rendite dei coniugi) è una compensazione a innaffiatoio, certo, ma dai costi sopportabili per dipendenti e aziende. E va a beneficio di tutti i nuovi pensionati: dalle persone con bassi redditi ai più o meno ricchi, passando dalla classe media. La soluzione “per il ceto medio” portata da Plr, Udc e Verdi liberali al Nazionale, invece, ha quale effetto di aumentare in modo massiccio i contributi Lpp per le persone con redditi modesti e i loro datori di lavoro, essenzialmente – come ha ricordato ieri Berset – piccole e medie imprese nei settori alberghiero, della ristorazione e agricolo. Se sul tavolo mettiamo poi le altre carte giocate ieri dalla maggioranza borghese della Camera del popolo (limitazione delle rendite per vedove/i e figli, solo uno 0,6% in più di Iva per finanziare l’Avs, aumento automatico a 67 anni dell’età di pensionamento), allora oggi ci sentiamo di dare ragione a Lorenz Hess (Pbd/Be): con i 70 franchi la riforma ha una piccola chance, senza non ne ha alcuna.

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