Commento

Trump e Brexit terranno banco

4 gennaio 2017
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La decisione britannica di abbandonare l’Unione europea e l’elezione di Donald Trump sono gli eventi clou che hanno caratterizzato il 2016. Due eventi che fanno da spartiacque anche dal punto di vista economico e non solo politico. Il secondo, in particolare, segnerà i prossimi quattro anni e influenzerà le scelte di politica economica e finanziaria anche da questa parte dell’Atlantico.
La ‘Trumpnomics’, come è già stata denominata dagli esperti, ha riacceso da una parte le speranze di chi anela a un rallentamento del processo di globalizzazione e dall’altra quella dei cosiddetti ‘menostatisti’: un mix di protezionismo, intervento pubblico e sgravi fiscali. Il tutto per puntare a un tasso di crescita dell’economia vicino al 4%. Se il programma dovesse funzionare, l’economia statunitense potrebbe fare da locomotiva alle altre economie e, in particolare, a quella europea. È sicuramente una prospettiva positiva, assieme al ridimensionamento del tassi di cambio dell’euro, con effetti positivi sulla competitività di prezzo delle esportazioni e sulla spinta all’uscita dalla deflazione da parte dell’Eurozona attraverso il deprezzamento del tasso di cambio.
Il programma di Trump si propone poi di fronteggiare il pressante problema della deindustrializzazione con città che si sono letteralmente spopolate, come nel caso di Detroit ma anche di molte altre. Tra il censimento del 2000 e quello del 2010, Detroit ha perso circa il 25% della popolazione, Cleveland il 17%, Cincinnati il 10%, Pittsburgh l’8%. Sono tutte città che si trovano in Stati chiave che hanno permesso la vittoria del candidato repubblicano. Un tema – quello della deindustrializzazione – che tocca anche altre economie occidentali come quella dell’Unione europea.
La cosiddetta quarta rivoluzione industriale e la digitalizzazione spinta dei processi industriali potrebbero essere un’occasione per gli Stati Uniti, ma non solo, di un recupero del peso della manifattura sul prodotto nazionale lordo (il cosiddetto reshoring). Non per forza ciò si tramuterà in un sensibile aumento dell’occupazione. Anzi, più produzione industriale non equivale da molto tempo ormai a maggiori posti di lavoro.
Le stesse ricette, per certi versi, che anche il governo britannico vuole mettere in campo per gestire il faticoso distacco dall’Unione europea. Non è un mistero che nei mesi scorsi il ministro delle Finanze inglese abbia proposto di abbassare ulteriormente l’aliquota d’imposta sugli utili delle società (al 15%, la stessa ipotizzata da Trump) e allargare la spesa pubblica per potenziare il mercato interno. Allo stesso tempo si vuole comunque mantenere un legame con il mercato europeo abbandonando progressivamente la libera circolazione delle persone. In questo caso gli inglesi dovranno fare i conti con altri 27 osti, ovvero gli altri governi dell’Unione europea. Il processo di allontanamento di Londra da Bruxelles richiederà quindi molto tempo e, se la Corte suprema nei primi giorni del 2017 dovesse confermare quanto già deciso da una Corte di Londra (la Brexit votata dai cittadini dovrebbe essere ratificata anche dal parlamento), l’intero iter potrebbe prendere pieghe inaspettate con una crisi di governo ed elezioni politiche anticipate. Tecnicamente, infatti, il Regno Unito non è ancora fuori dall’Unione europea. Anzi, il processo di divorzio deve ancora cominciare, visto che il governo non ne ha ancora attivato la domanda formale in base a quanto previsto dall’articolo 50 del Trattato di Lisbona. Insomma, di Brexit si continuerà a parlare a lungo anche quest’anno.

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