Commento

Una Lega senza i Bignasca

17 dicembre 2016
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Ma chi comanda davvero in casa della Lega dei Ticinesi? In politica, lo si voglia o no, i nodi prima o poi vengono al pettine. Puoi ben dirti “trasparente”, vicino alla “gente”, “movimento”, paladino di “tutti i ticinesi”. Finché sei all’opposizione tutto funziona perché non devi renderne conto. Poi conquisti il potere e sono cavoli amari. Amarissimi. Intanto perché il potere piace a tutti e quando vinci il carro diventa improvvisamente stretto per il numero dei vincitori (soprattutto quelli dell’ultima ora) e poi perché devi in qualche modo, prima o poi, dare una risposta ai problemi. Concreti.
È quanto sta capitando anche alla Lega, assemblaggio di personalità varie sino a qualche anno fa “sotto il bastone” del padre-padrone che tutto faceva e disfava: le liste per le elezioni cantonali passavano solo dal suo tavolo, per dire, con i timidi consigli del fratello Attilio. Perso il conduttore indiscusso, l’unico collante è il potere. E chi non lo ha o ne ha di meno delle proprie aspettative, scalpita. Che Boris Bignasca, ad esempio, faccia il “rivoluzionario” solo per rompere le uova nel paniere ai propri consiglieri di Stato – Zali in testa – non è un mistero per nessuno. Così come è vero che gli esclusi sono sempre pronti a saltare sul carro dei futuri vincenti per spodestare quelli che comandano oggi.
C’hanno provato dividendosi gli spazi: tu comandi a Lugano, io in Gran Consiglio, lui in governo, l’altro al ‘Mattino’ e così via. Ma non funziona. Non può funzionare per un motivi tanto semplice quanto oggi fuori moda: perché manca la dialettica di partito. Proprio così, manca quella cosa che permetteva ampia democrazia perché nasceva dal basso, dalle sezioni, e saliva su sino ai massimi dirigenti, scelti appunto su delega, su affidamento e fiducia, dopo un ampio confronto sui temi. Detta altrimenti, i rappresentanti – anche ai massimi poteri – una volta erano anche (certo, non solo) intermediari di valori, interessi ed esigenze settoriali; figli di un processo democratico interno ed esterno ai partiti. La leadership – per la quale si lottava in maniera forse ancor più dura di oggi – maturava nel confronto fra interessi generali e particolari, e non fra individualità alla caccia di una poltrona.
Dunque in casa della Lega è giunta l’ora del giudizio sulla definizione del nuovo leader che – è questa la novità – non per forza di cose domani potrebbe riconoscersi nel ‘Mattino della domenica’ e nella famiglia Bignasca. Fantapolitica? Può darsi, ma mai dire mai. Perché i leghisti oggi eletti nelle istituzioni – e non sono pochi, gregari compresi – prima o poi si stancheranno di essere ostaggio delle bizze del principe ereditario. E passeranno all’atto, al “parricidio”. Ma lo faranno solo quando saranno certi di aver trovato veri leader – magari eletti in Consiglio di Stato – capaci di correre da soli, con o senza i Bignasca. Come è capitato a Marco Borradori che non ha mai voluto “tradire” il Nano, salvo poi proporre con insistenza la sua candidatura al Municipio di Lugano che gli avrebbe aperto la strada alla poltrona di sindaco. E se ce l’ha fatta lui, a suo tempo, con Giuliano Bignasca, volete che non ce la facciano oggi i vari eletti di peso del movimento? Boris lo sa e gioca d’anticipo, ma le sue cannonate potrebbero alla fine rivelarsi a salve. Perché è troppo tardi e il movimento, ormai adulto, non ha più bisogno di padri. Magari di una buona politica, ma questo è davvero un altro discorso.

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