Commento

Pensioni, ideologia e buon senso

15 dicembre 2016
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Tutti dicono che una riforma ci vuole, e presto; che il livello delle rendite del primo (Avs) e del secondo pilastro (cassa pensione o Lpp) va mantenuto, altrimenti alle urne siamo fritti; e tutti a Palazzo federale sono ormai d’accordo: le donne devono andare in pensione a 65 anni, come gli uomini. Eppure, dopo due anni di lavori, i due rami del parlamento sono ancora distanti anni luce l’uno dall’altro. E non su dettagli, ma sul ‘cuore’ della ‘Previdenza per la vecchiaia 2020’: come compensare la riduzione del 12% delle rendite Lpp dovuta all’abbassamento dal 6,8% al 6% del tasso di conversione sugli averi del secondo pilastro. Il capogruppo del Plr Ignazio Cassis la mette sul piano calcistico. «Siamo solo nel secondo tempo (...). Ognuno fa un po’ di melina, cerca di portare la partita ai calci di rigore», cioè alla conferenza di conciliazione fra le due Camere, già in agenda alla sessione di marzo. Troppo semplice. Tirare per le lunghe fa parte del gioco, per carità. Ma quando dal confronto sul piano degli argomenti si passa a un tratto, com’è avvenuto in questi giorni a Berna, al catastrofismo e alle minacce esplicite, vuol dire che forse non è solo innocua melina. C’è dell’altro. Segnali di una «battaglia dogmatica», per la consigliera nazionale Ruth Humbel (Ppd). E non è l’unica a intravederli. Il Consiglio degli Stati, sull’asse Ppd/Ps, ha confermato martedì il suo modello: supplemento di 70 franchi al mese sulle nuove rendite Avs, aumento del tetto massimo delle rendite Avs per i coniugi, più alcuni aggiustamenti nel secondo pilastro volti ad accrescere il capitale accumulato. Una compensazione mista (Avs e Lpp), che corretta in alcuni punti (per tenere maggiormente in considerazione le lavoratrici e i lavoratori a tempo parziale, ad esempio), appare sensata da un punto di vista sociale (incide meno di qualsiasi altra sulle persone con redditi medi e bassi e sulle piccole e medie imprese), coerente in fondo con l’impostazione della riforma (che abbraccia primo e secondo pilastro), tatticamente saggia (in chiave votazione popolare è relativamente facile da ‘vendere’) e finanziariamente accorta (fino al 2030 costa 24 miliardi in meno del modello approvato in settembre dal Nazionale). Ma Plr e Unione svizzera degli imprenditori (Usi) hanno già tracciato la linea rossa: niente 70 franchi in più di Avs. Il partito di Petra Gössi, che ama presentarsi come costruttore di maggioranze in parlamento, non vuole in nessun caso «aggiungere un piano a un edificio che già è in fiamme!» (Cassis). Per l’Usi “persino lo statu quo sarebbe migliore dell’opzione del Consiglio degli Stati”. È tutto dire. O quasi. Perché, sì, è vero: anche il modello Plr/Usi compensa appieno la riduzione del 12% delle rendite Lpp. Oltretutto, se rivisto e condito con ‘zuccherini’ in ambito Avs (i liberali-radicali adesso si dicono aperti in questo senso), potrebbe risultare leggermente meno gravoso di quanto lo sia ora per le persone con redditi medio-bassi e le piccole e medie imprese. Ma siamo ancora lontani da lì. E, comunque, anche se arrivassimo a quel punto, ben difficilmente il suo rapporto costi/benefici (nel complesso, e in particolare per le persone con redditi medi-bassi) sarà migliore di quello che può vantare il modello dei ‘senatori’. Non è solo questo: c’è anche il fatto che, coi tempi che corrono (costante erosione dei tassi di interesse, e quindi dei rendimenti delle casse pensioni), ostinarsi a voler puntare esclusivamente sul secondo pilastro denota scarso buon senso (se non una certa, ideologica cocciutaggine). Si rischia grosso: Plr e Udc al Nazionale hanno i numeri per far capottare la riforma. E senza questa, il futuro di Avs e casse pensioni appare più che mai incerto.

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