Commento

I pericoli nascosti nei tassi negativi

8 novembre 2016
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Per molti anni la preoccupazione principale del risparmiatore è stata quella di difendersi dall’inflazione che erodeva il potere d’acquisto e vanificava il risparmio. A tassi nominali elevati – si era negli anni 70 – non corrispondeva per forza un tasso reale della stessa portata che remunerava adeguatamente il capitale investito. Negli anni 80 è iniziata l’euforia da mercati finanziari. Allettati da rendimenti annuali a doppia cifra, molti risparmiatori si sono buttati a capofitto in Borsa e con loro i cosiddetti investitori istituzionali, custodi dei nostri capitali previdenziali sotto qualsiasi forma (casse pensioni, terzo pilastro, polizze vita e fondi gestiti). Il brusco risveglio si ebbe una prima volta nella primavera del 1986, seguito a più di un decennio di distanza dallo scoppio della bolla della new economy; poi – ultima in ordine di tempo – nell’autunno del 2008 con il crollo della Lehman Brothers si è entrati in quella che è stata definita la peggiore crisi dal 1929. L’economia mondiale da allora ha ripreso sì a crescere, ma a macchia di leopardo e con il freno a mano perennemente tirato. Molte economie, infatti, non sono ancora uscite dalla crisi economica tanto che hanno livelli di Pil inferiori a quelli registrati tra il 2007 e il 2008. Da quell’autunno è stato un susseguirsi di interventi di politica monetaria espansiva da parte delle banche centrali, tanto che i tassi di riferimento sono stati decurtati progressivamente fino a scendere – in alcune aree monetarie come quella del franco, dell’euro e dello yen giapponese – in territorio negativo. Si tratta di fatto di una ‘tassazione’ ulteriore del risparmio contraria alla logica che sottende al risparmio stesso: si rinuncia ora a un consumo immediato, per spostarlo nel tempo e metterlo nel frattempo a disposizione del circuito bancario che lo trasforma (o dovrebbe) in crediti per le imprese e le famiglie alimentando la dinamica positiva del ciclo economico. Quella rinuncia da sempre – almeno seguendo il buon senso popolare – era remunerata con un interesse sul capitale, modesto che fosse, ma positivo. Una logica propria dei piccoli risparmiatori che solitamente non sono avvezzi ai sofisticati strumenti finanziari che i vari istituti bancari offrono sul mercato. Da quasi due anni – per quanto riguarda il franco svizzero – non è più così. L’intento della Banca nazionale è quello di stimolare una dinamica positiva del livello dei prezzi al consumo per evitare una deriva deflazionistica che comunque è in corso e scoraggiare l’acquisto di franchi da parte degli investitori esteri. Obiettivi che non sono stati ancora raggiunti, tanto che si guarda con apprensione a quanto succederà oltre Atlantico non solo per l’esito della contesa presidenziale ma anche per l’inizio – finora sempre rimandato – della normalizzazione della politica monetaria da parte della Federal Reserve. Una mossa che allenterebbe la pressione sulla valuta elvetica considerata bene rifugio e che permetterebbe di sperare in un ritorno a tassi perlomeno nulli, che sono sempre meglio di quelli negativi. La stessa struttura del sistema previdenziale svizzero basato sui famosi tre pilastri (Avs, cassa pensioni e risparmio privato) è messa a dura prova da un livello storicamente basso dei tassi d’interesse, tanto che si cercano, o si è spinti a cercare a tutti i costi, remunerazioni positive in territori altamente rischiosi e sconosciuti (quelli degli investimenti azionari) per enti che dovrebbero essere votati alla prudenza per eccellenza.

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