Commento

Quello che manca all’Europa

1 ottobre 2016
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L’Unione europea, così come la conosciamo, sta attraversando una crisi di portata tale da mettere in pericolo la sua stessa esistenza. L’uscita della Gran Bretagna decretata con voto popolare lo scorso giugno, ma nei fatti ancora non effettiva, ha creato le premesse per una sua disgregazione. I quattro pilastri fondanti l’Unione europea (la libertà di movimento di merci, servizi, capitali e persone) sono messi in discussione da un numero crescente di cittadini e anche di governi o di leader di partiti che ambiscono a governare. I britannici (certamente aizzati da movimenti populisti, ma non solo) hanno scelto la via solitaria perché insofferenti nei confronti della crescente immigrazione comunitaria che – ai loro occhi – metterebbe in pericolo i salari e quello che rimane del loro welfare dopo la cura Thatcher e l’ulteriore implementazione ‘new labour’ di Blair. Pericolo percepito soprattutto tra i ceti sociali meno attrezzati ad affrontare la competizione dei nuovi arrivati. Si afferma con forza che il principio della libera circolazione della manodopera, necessario per far funzionare al meglio quello che vuole essere il grande mercato europeo, non è negoziabile: o lo si accetta oppure si è fuori dai benefici dallo scambio commerciale continentale. Questo, in estrema sintesi, è quanto si sentono ripetere da Bruxelles i britannici dallo scorso giugno e gli svizzeri dal 9 febbraio del 2014. Ora si è aggiunto anche il voto favorevole dei ticinesi all’ammiccante slogan ‘Prima i nostri’. Trasformarlo in realtà è un’altra cosa.
Il progetto europeo in origine era altro rispetto alla costruzione di un enorme mercato. In fondo, dicono i contrari all’Ue, per creare una zona di libero scambio dei fattori produttivi (capitale e lavoro) non era necessario costruire una struttura sovranazionale farraginosa, con l’ambizione di essere anche una sorta di Stato senza però le prerogative di un’entità statale (difesa, giustizia, welfare e potestà finanziaria). Per questo bastavano accordi multilaterali. Se si è arrivati a quello che l’Europa è oggi è perché i singoli governi nel corso degli ultimi decenni l’hanno voluta così: sulla carta uno spazio condiviso per la gestione di problemi comuni, in realtà luogo di scontro politico spesso ad uso e consumo dell’opinione pubblica interna. Ecco quindi che gli impegni presi a livello comunitario, diventano ‘imposizioni’ dei burocrati di Bruxelles; le promesse – ribadite da accordi ratificati e votati più volte, a seconda degli assetti istituzionali dei singoli Paesi (Ue o non Ue) – di impegnarsi a mantenere conti pubblici in ordine o a garantire l’accesso al proprio mercato del lavoro (e viceversa), possono essere disattese senza grandi conseguenze. Domani ci proveranno gli ungheresi sul diritto all’asilo. Così non è. Ne sanno qualcosa i greci. I patti o si rispettano oppure si disdicono. Non c’è altra via.
Il malessere che serpeggia attorno alla libera circolazione delle persone non è dovuto solo a egoismo. Il disamore nei confronti del progetto europeo è anche generato dalla matrice ideologica su cui si fonda il mercato comune: un’impronta neo-liberista senza contrappesi sociali. Alle quattro libertà non sono stati affiancati altrettanti doveri. Manca, per esempio, una carta dei lavoratori con tutele, magari minime, ma garantite in tutta Europa. In Svizzera, per esempio, solo dopo oltre un decennio di apertura del mercato del lavoro sono arrivate ieri misure più incisive per contrastare gli abusi salariali e contrattuali che comunque ci sono. È mancato fin dall’inizio della via bilaterale un vero trade-off (costo-opportunità) tra la libertà data alle imprese (accesso al mercato del lavoro europeo) e la garanzia del rispetto del diritto del lavoro, magari rafforzato per tutti.

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