Commento

Ostaggio dei tassi d’interesse

15 settembre 2016
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I tassi d’interesse guida delle banche centrali – una volta si sarebbero chiamati semplicemente tassi di sconto – influenzano i mercati finanziari molto di più dei dati macroeconomici fondamentali. Al minimo sentore di una stretta o semplicemente al ritorno a una politica monetaria ‘normale’, i listini fanno brusche correzioni del loro valore tanto da far pensare a imminenti tragedie finanziarie. In realtà l’indice americano S&P 500 è ai massimi storici (2’191 punti) come pure il Dow30 (le ‘blue chip’ statunitensi) che ha raggiunto quote mai viste nella sua storia (18’668 punti). Ora, la logica vorrebbe che a notizie positive provenienti dal mercato del lavoro o dal mondo industriale, le Borse reagissero positivamente. E invece puntualmente avviene il contrario, soprattutto negli Stati Uniti. Il paventato aumento dei tassi da parte della Federal Reserve sta tenendo di fatto con il fiato sospeso investitori e operatori di mercato che si stanno trasformando da presunti attori razionali a veri e propri scommettitori. Un report della Gold-man Sachs la scorsa settimana parlava di una probabilità di intervento da parte della Fed del 55%. La prossima settimana avremo finalmente conferma della bontà o no di questa previsione fatta da una delle principali banche d’investimento al mondo. Se non sono informati e ‘razionali’ loro, chi dovrebbe esserlo? Ma a parte queste speculazioni che lasciano il tempo che trovano, la Fed, a differenza della sua omologa europea, ha due mandati espliciti: il raggiungimento della piena occupazione e il controllo della dinamica dei prezzi (l’inflazione, per intenderci). Ora tutti e due questi obiettivi sono stati raggiunti parzialmente. Il tasso di disoccupazione è al 4,9% e quello d’inflazione all’1,74%. Dati non esaltanti, ma invidiabili se osservati dall’Eurozona che ha più del doppio di senza lavoro e crescita dei prezzi (e quindi dei salari) quasi nulla. Sarebbe quindi ragionevole pensare a un ritocco – anche se simbolico – dei tassi Usa che però probabilmente non avverrà e questo perché esiste di fatto un terzo mandato implicito: la stabilità finanziaria dei Paesi emergenti che in questi anni si sono fortemente indebitati in dollari, la cui fragile ripresa verrebbe messa a dura prova da un appesantimento del servizio del debito (pubblico e privato). Ma a indebitarsi in questi anni sono state anche le aziende americane che hanno usato il denaro a buon mercato anche per fare operazioni di ‘buyback’ (riacquisto di azioni proprie) le quali hanno spinto a livelli record i bonus dei top manager legati a doppio filo all’andamento del titolo della propria società. Da qui il forte sostegno alle quotazioni di Borsa. A dirlo è sempre Goldman Sachs in un recente studio. Secondo gli analisti della banca statunitense, tra il 2012 e il 2015 le società quotate americane hanno investito circa 1’700 miliardi di dollari della loro liquidità per riacquistare azioni proprie. I flussi di acquisto – stando sempre a Goldman Sachs – sarebbero stati negativi per 1’100 miliardi di dollari in questo periodo se le aziende non avessero usato i soldi per ricomprarsi le azioni. Questo vuol dire una sola cosa: il rialzo degli indici azionari non sarebbe stato così stellare. Ecco perché i mercati finanziari vanno in fibrillazione ogni volta che si palesa una minima possibilità di un parziale ritiro della liquidità immessa dalle banche centrali. Intanto oggi – a meno di sorprese dell’ultima ora sempre possibili – la Banca nazionale svizzera dovrebbe confermare la sua di politica monetaria ultraespansiva lasciando i tassi di interesse sui depositi delle banche in territorio negativo (-0,75%) nel tentativo, per ora vano, di evitare una deflazione e svalutare il franco.

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