Commento

Pedofili, quando fare o meno i nomi?

14 settembre 2016
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Un lettore (purtroppo anonimo) ci ha scritto ponendoci domande che di tanto in tanto ricorrono. Eccole: perché, riferendo la scorsa settimana del caso giudiziario che ha portato dietro le sbarre un monitore di una società di ginnastica dell’Alto Mendrisiotto, non avete fatto il suo nome? E perché lo avete invece fatto a suo tempo nel caso Bomio? Anzi: come mai nell’articolo di qualche giorno fa, parlando della nuova inchiesta di pedofilia, avete persino rifatto il nome di Bomio? Domande pertinenti, perché dal di fuori vedendo trattare sulla stampa vicende apparentemente simili, che vertono su casi di abusi sessuali su minori, si ha l’impressione che si possano utilizzare (a seconda delle persone coinvolte?) due pesi e due misure. Nulla di tutto ciò! Dapprima una premessa: volenti o nolenti anche per il peggior criminale vale la presunzione di innocenza. Questo, noi giornalisti, mentre scriviamo un articolo, non dobbiamo mai dimenticarlo. Dobbiamo quindi evitare di sostituirci al lavoro che stanno facendo inquirenti e magistratura giudicante. Perché noi non abbiamo tutti gli elementi di cui dispongono invece accusa e difesa e ci fa anche difetto la competenza per una soppesata valutazione penale, appannaggio della Corte giudicante. Va anche ricordato che un presunto colpevole finito in prima pagina può per finire anche venir assolto. È già capitato. In certi rarissimi casi ciò è avvenuto perché il colpevole era effettivamente un altro, in altri casi perché la verità giudiziaria non coincide necessariamente con la verità. In tribunale le parti fanno di tutto per ricercare la verità, ma, se determinati fatti non si possono provare, ci si incammina sul terreno minato dei processi indiziari. E quando gli indizi non sono sufficientemente univoci e concordanti, a farla da padrone è il dubbio. E il dubbio favorisce il presunto colpevole. Quando si affronta una vicenda di abusi sessuali, quindi delicatissima, il tutto si complica ulteriormente perché gli abusi sono spesso difficili da provare, se non accertati subito da parte di un medico, e perché l’identità degli abusati minorenni va sempre tutelata. Ecco perché non possiamo fare il nome della società di ginnastica locale in cui militava il monitore abusatore. Perché facendo il suo nome si potrebbe facilmente risalire al luogo, al comune e a un certo numero di vittime minorenni e danneggiarle oltre. E allora, perché si è fatto il nome di Bomio e si è messa anche la sua foto al momento dell’arresto? Il suo nome non poteva essere taciuto, visto che, quando è scoppiato il bubbone, persino la società di nuoto, alla quale aveva per anni indissolubilmente legato il suo nome e la sua immagine di allenatore affidabile, si era mossa con comunicazioni pubbliche. Se poi oggi, a diversi anni dalla sua condanna, viene ancora ricordato il ‘caso Bomio’ è perché quella vicenda ha fatto indiscutibilmente da discrimine fra un prima e un dopo nell’impegno, che da allora è cresciuto, da parte delle istituzioni e delle società sportive nel monitorare e subito isolare (speriamo anche denunciare) possibili situazioni a rischio. Come dire, di casi analoghi purtroppo ne verranno ancora a galla, ma il caso Bomio è stato e rimarrà il caso storico che ha fatto qui da noi da spartiacque. Per la lunga durata delle vicende di abusi, per gli interrogativi che sono rimbalzati sulla blasonata società di nuoto, per il ruolo anche pubblico rivestito da anni dal condannato e perché ci ha ulteriormente aperto gli occhi e spinti a chiedere di più anche in ambito sportivo.

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