Commento

Morire in montagna e tornare a salire

30 agosto 2016
|

Si invochino il destino, le alte temperature, l’imperizia, la statistica; si facciano appelli alla prudenza: le parole, che pur bisogna usare quando la conta dei morti sale – dal Monte Bianco, al Cervino, al Monte Rosa al Bernina –, sono poca cosa. Spiegano, forse, ma vai a capire…
Una delle fotografie più celebri della storia dell’alpinismo mostra una cresta nevosa sulla quale si vede una traccia interrompersi nel punto di rottura di una cornice. La scattò Kurt Diemberger nel 1957 sul Chogolisa (7’668 metri) e documenta, indirettamente, la morte del suo compagno Hermann Buhl, uno dei più grandi alpinisti di sempre, che si trovò il vuoto sotto i piedi quando la cornice cedette.
Non si parlava, allora, di surriscaldamento climatico, né di sovraffollamento di alcune sfortunate cime vittime della propria celebrità. Si salivano le montagne, allora come oggi, per quell’intimo, inconfondibile piacere che tutte le sovrastrutture retoriche, sociologiche, commerciali, persino ideologiche non hanno intaccato nella sua ragione profonda. Un piacere non necessariamente più elevato o nobile di altri, ma che ha nella fatica e in una mutevole dose di rischio gli elementi decisivi di distinzione, quegli stessi che accomunano i Messner e gli alpinisti della domenica, proprio come la magia del far musica accomuna Mozart e il suonatore di fisarmonica all’angolo della strada.
Con in più, ed è ciò che fa i titoli dei notiziari, la morte, la grande livellatrice che si prese Buhl come oggi i tre ignari alpinisti vallesani precipitati con la cornice che si è staccata sotto i loro piedi. Facendoli perire sulla parete est del Monte Rosa, questa sì il documento più impressionante dello sfacelo provocato dal grande caldo della nostra epoca: ghiacciai che collassano, pareti che crollano. Il tempo per ripetere le vie storiche, su quel versante, è finito, se non per il breve spazio di sempre più incerti inverni.
L’ho presa un po’ alla larga, sì. È che i tre sfortunati alpinisti vallesani sono morti in una domenica di scarse news, finendo sbalzati “in prima”, come forse non sarebbe accaduto in circostanze diverse, aggiungendosi (e drammaticamente precedendo) alle altre vittime dell’estate alpina: tante, ma non più numerose della media pluriennale. E perché questo non sembri cinismo, bisognerà subito aggiungere che la loro morte è, nella forma più tragica, l’affermazione del principio di realtà sulle speculazioni di cui le grandi montagne e il salirle sono involontaria fonte. La filiera economica alimentata dal richiamo della montagna, dalle località ai piedi delle cime più ambite ai settori merceologici più disparati, vive e insiste sull’immagine di libertà, avventura, prestazione che da oltre due secoli è stata applicata alle Alpi.
Un marketing anche culturale che esorcizza il timore e la possibilità della morte pubblicizzando come modello di esistenza la sfida ai limiti della ragionevolezza e persino della fisica (con l’ipocrita sostegno di un apparato mediatico e istituzionale votato alla “sicurezza”).
Gli alpinisti non ne hanno colpa: salgono le montagne “perché ci sono”, come disse dell’Everest George Mallory a chi gli chiedeva perché mai volesse salirlo. La loro morte, di cui certo farebbero a meno, è una croce tracciata sui cartelloni pubblicitari, oltre che una misura della finitezza umana. Ma di sicuro tornerebbero a salire il Cervino, il Rosa, il Basodino o la montagna fuori casa. Come spiegarlo a chi non lo sa?

Resta connesso con la tua comunità leggendo laRegione: ora siamo anche su Whatsapp! Clicca qui e ricorda di attivare le notifiche 🔔