Commento

Le domande di un festival

16 agosto 2016
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Al termine di un grande evento culturale, quale vuole essere il Festival del film, ci sono tanti spunti su cui provare a sviluppare un pensiero sensato. Ad esempio gli albergatori e ristoratori locarnesi che tirano un sospiro di sollievo, potendo così rimandare a un indefinito futuro ogni riflessione sulla qualità dell’offerta in una città a vocazione turistica. Si potrebbe anche considerare che il coraggio è una nobile virtù, purché se ne dia prova con saggezza. E quindi della leggera flessione delle entrate, in particolare in Piazza. Qui, come lasciato intendere dal direttore operativo, la “scelta coraggiosa” dei morti viventi in apertura non ha portato risultati proprio vitali. Un po’ di coraggio è invece venuto meno, e forse un tantino di coerenza, con la premiazione, sempre in Piazza, di Alejandro Jodorowsky: se un autore merita il Pardo d’onore, perché il suo film non può passare in prima serata? Senza timore di risultare retrogradi, si può forse aggiungere che, con un altro po’ di coraggio, si potrebbe ricuperare un’idea del passato recente: la proiezione in Piazza del film vincitore. Senza nulla togliere alla dignità dei kolossal indiani, sarebbe forse un’occasione preziosa di condivisione, di celebrazione (col pubblico) di ciò che è centrale in questo Festival del film. Si potrebbe poi esprimere una volta di più comprensione verso i controlli di sicurezza (anche noi abbiamo aperto e richiuso tutte le tasche dello stesso zaino sei volte al giorno), oppure condiscendenza verso la Rotonda, o ancora umana compassione nei confronti dell’ubriaco che si è cimentato nell’impresa di dare fuoco allo schermo in Piazza. Ci si potrebbe anche misurare con un’altra valutazione del Festival, del programma del Concorso o di quello della Piazza, ma, oltre che di interesse relativo, ci pare un esercizio pure piuttosto noioso. Restiamo allora ai film, a ciò che di autentico, forte, significativo hanno saputo dire su di noi e il nostro tempo. Ai conflitti, alle passioni, agli appelli pieni di vita e disperazione che hanno saputo rivolgerci; e quindi allo spazio, al ruolo, alle conseguenze più o meno decisive che questi possono avere nella nostra vita. Ralitza Petrova, Pardo d’Oro, crede nel piccolo ruolo dei cineasti, diciamo della cultura, nel difendere alcuni valori fondanti la nostra stessa umanità. Ha firmato un film che come una coltellata affonda lento nella carne, fino in fondo, per lasciare poi allo spettatore il compito di ricuperare, nel proprio piccolo, quell’umanità perduta nell’universo da lei raccontato. Siamo disposti, noi, nella nostra quotidianità, a tendere la mano al prossimo? Ad accudire chi è più debole, a non speculare sul bisogno altrui? A proteggere un bambino sconosciuto dalle lordure del mondo? A scorgere altro nell’orizzonte sterminato che non sia mero, vano soddisfacimento dei propri bisogni, affermazione di sé, accumulo ebete di cose? Siamo ancora capaci, noi evoluti egocentrici materialisti del terzo millennio, di vedere l’altro, di ascoltarlo? Sempre al nostro piccolo di cittadini si è appellato Ken Loach con il suo film (premiato dal pubblico della Piazza), in cui un uomo qualunque – uno che crede ancora nel valore di un lavoro ben fatto, di un sorriso al proprio vicino di casa, di un conflitto costruttivo a difesa del bene comune – si ritrova a districarsi invano fra le assurdità di una burocrazia disumana. La Gran Bretagna di Loach come la Bulgaria di Ralitza Petrova non sono forse così lontane. Quel generale smarrimento di valori e di umanità, nelle nebbie della produttività forzata e dell’incubo della ricchezza facile, si affronta nel proprio piccolo. Forse non si cambia il mondo, come auspica Loach, ma si può combattere; e cambiare almeno sé stessi.

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