Commento

Un’altra Europa da ridisegnare

28 giugno 2016
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I mercati finanziari non hanno ancora smaltito il post-Brexit e probabilmente continueranno ancora a lungo sull’ottovolante prima di ritrovare una nuova normalità. In fondo c’è e ci sarà ancora vita dopo l’addio di Londra all’Unione europea. È solo questione di tempo. Quello che i mercati odiano, lo si ripete come un mantra a ogni scossone politico o economico, è l’incertezza. Per ora l’unica cosa certa è che la maggioranza dei britannici ha deciso di non continuare il progetto di costruzione europea, che mai – a dir la verità – hanno fatto proprio. Un progetto che andrà ridisegnato e adeguato alle mutate circostanze. I leader dei Paesi europei non potranno far finta che nulla è successo. Il voto della scorsa settimana è stato uno spartiacque storico. E proprio per questa ragione i capi di Stato e di governo devono prendere atto che l’Europa che verrà non sarà più quella di prima per prendere le dovute contromisure il più in fretta possibile. Non perché lo chiedono i ‘mercati’, ma perché lo chiede un’opinione pubblica sempre più smarrita di fronte ai recenti avvenimenti del Vecchio Continente, stretto tra crisi migratoria, politiche di austerity e ripresa economica asfittica che stenta a manifestarsi soprattutto nella periferia dell’Ue. Il caso greco in questo senso è da manuale: cattiva politica economica e pessima visione politica. Da quando è scoppiata la cosiddetta crisi dei ‘debiti sovrani’ nel 2010, la popolazione greca è diventata di semestre in semestre sempre più povera e attaccata ai vitali prestiti comunitari in cambio della solita medicina economica (in estrema sintesi, meno spesa sociale e più tasse). Decidere prima che la via solitaria diventi l’unica strada giudicata percorribile anche da altri Paesi Ue è quindi fondamentale se si vuole preservare in Europa un luogo di confronto, di cooperazione e di composizione delle vertenze tra Stati, oltre che di coordinamento di diverse politiche. In caso contrario, lo smantellamento disordinato dell’Unione europea è soltanto una questione di tempo, più o meno lungo. Ed è proprio per queste ragioni che le rappresaglie minacciate nei confronti di Londra in un primo momento dal ministro tedesco Wolfgang Schäuble suonano stonate in partenza. Chi è così folle da rinunciare a un importatore netto di beni e servizi qual è il Regno Unito in un momento in cui la domanda globale è in discesa? Anche nell’economia internazionale vale quanto si predica per l’economia aziendale, e cioè che è più facile sostituire un fornitore rispetto a un cliente. E nel caso in questione è la Gran Bretagna a essere cliente dei fornitori europei. Per questa ragione all’irrazionalità degli inglesi non bisognerebbe rispondere con eguale e contraria irrazionalità continentale. Non si può però rimanere ostaggio – la politica europea, almeno – delle decisioni d’Oltre Manica di rimandare a ottobre o a quando si sentiranno pronti (George Osborne ‘dixit’) la presentazione della formale domanda di uscita dall’Ue con successivo e incerto negoziato. Il maldestro premier David Cameron sapeva benissimo fin dall’inizio a cosa andava incontro in caso di ‘Leave’ quando decise di convocare il referendum. Ora l’incertezza la fa da padrona: sia sui mercati finanziari, sia nella politica interna all’Ue e alla stessa Gran Bretagna, con gli scozzesi smaniosi di staccarsi da Londra. Un bel rebus che richiederà tutta l’abilità e la lungimiranza politica (a dire il vero scarse in questo periodo storico) disponibili in Europa per risolverlo.

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