Commento

La pagella dei magistrati

7 giugno 2016
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Valutare il rendimento di un magistrato – oltretutto, e il dettaglio non è trascurabile, eletto, come avviene in Ticino, da coloro che siedono in Gran Consiglio e che dunque rappresentano il popolo – non è proprio come misurare quantità e qualità del lavoro, tanto per fare un esempio, di un addetto alla catena di montaggio. Il numero di decisioni prodotte nell’arco di una settimana, di un mese oppure di un anno non è infatti un criterio né sufficiente né oggettivo per stimare l’operato di un giudice o di un procuratore pubblico: la durata di un’inchiesta dipende anche dalla natura del caso;  dietro a ogni pratica, nel penale come nel civile, c’è una persona (o più persone) con le sue sofferenze e le sue richieste; ci sono le garanzie sancite dai nostri codici di procedura che possono ritardare l’emanazione di un decreto o di un atto d’accusa... Insomma sono diversi i fattori che condizionano i tempi di risposta della giustizia. Per questo non condividiamo l’invito rivolto ieri, in occasione dell’apertura dell’anno giudiziario 2016-2017, dal capo del Dipartimento istituzioni al Consiglio della magistratura, quello cioè di verificare le capacità delle toghe in funzione (anche) della “durata delle procedure” e della “stabilità delle decisioni”, ovvero in base “alla percentuale delle sentenze impugnate rispetto a quelle emesse” e “alla percentuale dei casi di conferma della decisione nel successivo grado di giudizio”.
A proposito della “stabilità” delle decisioni, la proposta di Gobbi presuppone l’infallibilità dei magistrati perlomeno di prima istanza: quindi un giudice o un procuratore è bravo se non sbaglia. Così però non è, in Svizzera e altrove. Non per niente pure il nostro sistema giudiziario contempla più gradi di giudizio (addirittura vi è la possibilità di ricorrere alla Corte europea dei diritti dell’uomo). Può così succedere, e capita, che il Tribunale federale, massima autorità giudiziaria elvetica, annulli il verdetto con cui dei giudici d’Appello cantonali hanno confermato la decisione presa in primo grado. L’idea di Gobbi non è nuova. Già sedici anni fa, quando venne approvato un importante potenziamento dell’organico giudiziario (tre procuratori pubblici e un giudice in più), la Commissione della legislazione del Gran Consiglio aveva sollecitato il governo ad “affidare al Consiglio della magistratura compiti di definizione e di controllo dell’efficacia del lavoro dei magistrati, collettivamente per ufficio e singolarmente”. Non sappiamo quale fine abbia fatto la richiesta.
Intendiamoci: tutti vogliamo magistrati che sappiano assolvere egregiamente le non facili mansioni che la carica comporta. Ci vogliono preparazione e carattere. Riteniamo allora che si debba ragionare sul sistema di elezione delle toghe, sulla selezione degli aspiranti giudici e procuratori. Mesi fa il Gran Consiglio ha incaricato una propria commissione di vagliare una serie di atti parlamentari sul tema e, se necessario, di suggerire correttivi alla vigente procedura di nomina o di proporne una radicale modifica. Il tema è annoso ed è periodicamente fonte di polemiche (eccessiva ingerenza dei partiti, preavvisi della Commissione di esperti non rispettati ecc.). È ora che il parlamento, autorità preposta all’elezione dei magistrati, ne arrivi a una. Non c’è un sistema di designazione perfetto, ogni modello presenta vantaggi e svantaggi, come ha ricordato all’inaugurazione dell’anno giudiziario il nuovo presidente del Tribunale di appello Matteo Cassina. Il quale ha chiesto alla politica, ossia al Gran Consiglio, di fare comunque “chiarezza” su questo argomento. Di fare – finalmente – chiarezza.

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