Commento

Stretta sui tassi Fed ancora più lontana

4 giugno 2016
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Si allontana il previsto aumento ‘estivo’ dei tassi d’interesse: i dati di ieri relativi all’occupazione rimandano l’annunciata normalizzazione monetaria. L’economia americana ha creato in maggio solo 38mila nuovi posti di lavoro. Si tratta del numero più basso da sei anni. Anche se il tasso di disoccupazione è sceso al 4,7% – a livelli di pre-crisi finanziaria, dunque – la percentuale di partecipazione al mercato del lavoro (vero indicatore del dinamismo economico) è scesa ulteriormente al 62,6%. Un segnale evidente dell’aumento del numero degli scoraggiati, ovvero di coloro che avendo perso il posto di lavoro non ne cercano uno nuovo. Il dato di maggio rappresenta una brusca frenata sul fronte della occupazione Usa, considerando che le attese erano di 158mila nuovi posti e la media dei primi quattro mesi del 2016 era stata di 192mila posti creati.
Un quadro cupo, dunque, per la Federal Reserve che nella riunione del 14 e 15 giugno dovrà decidere se aumentare ancora i tassi. Un appuntamento che cade una settimana prima del referendum britannico sulla Brexit: aumentare i tassi di interesse prima dell’esito del voto rischierebbe di alimentare la volatilità del mercato, oltre a indicare l’urgenza per la banca centrale statunitense di ritoccare il costo del denaro nonostante i rischi esterni. Con l’incognita del voto e soprattutto delle sue conseguenze se dovesse vincere l’addio britannico all’Unione europea (sempre possibile, nonostante i sondaggi dicano altro), una stretta americana presenterebbe rischi di non poco conto. E la Fed ne è consapevole. O perlomeno dovrebbe esserlo.
Nelle ultime settimane vari membri della banca centrale americana hanno messo l’accento sui pericoli della Brexit e sulla necessità di usare cautela in ogni tipo di decisione. L’idea di rinviare a luglio è quindi più che probabile, anche se il fatto che la politica monetaria possa essere influenzata da un evento esterno è abbastanza insolita, visto che la Fed dovrebbe basare la propria politica in base a dati macroeconomici propri come crescita del Pil, occupazione e andamento dell’inflazione. Ma sono proprio questi ultimi, in calo, a indicare forzatamente la strada per ritardare quella normalizzazione dei tassi d’interesse attesa con impazienza anche da questa parte dell’Atlantico. Un dollaro più forte toglierebbe, per esempio, pressione al franco svizzero. Se a questo uniamo una quotazione del greggio un po’ più elevata, l’obiettivo di un’inflazione vicina al 2% tanto agognata dalla Bce potrebbe essere più vicino.

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