Commento

Un crocevia per l’Europa

18 febbraio 2016
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Se Londra lascerà l’Unione europea non sarà la fine del mondo. Ma estendendo al di qua della Manica l’enfatica affermazione del ‘Daily Mail’ (“Siamo a un crocevia della storia della democrazia in queste isole britanniche”), bisogna ammettere che l’ipotesi del distacco del Regno Unito rappresenta per l’Unione un crocevia storico. Le alternative paiono due: la concessione a Londra di nuove condizioni di eccezione per rendere ancora più lasco il legame con l’Ue, o la perdita di un membro storico dell’Europa comunitaria. Entrambe avrebbero conseguenze profonde e forse drammatiche sul progetto europeo; la seconda ne avrebbe di imprevedibili sul Regno Unito. È certo che gli effetti della forzatura di David Cameron (l’incauta promessa di referendum sulla permanenza nell’Ue, che rischia di travolgere lui per primo) sono sfuggiti di mano al primo ministro britannico e ai suoi interlocutori, istituzioni europee e governi nazionali. Londra (che non fa parte dello spazio Schengen, né della moneta unica, e gode di rilevanti condizioni di favore in materia di budget comunitario) chiede in sintesi di essere liberata da quelli che ritiene limiti insopportabili alla propria sovranità in tema di legislazione e di politica finanziaria, mentre ne esige di nuovi in fatto di immigrazione, e di accesso al proprio welfare da parte di cittadini comunitari. Soprattutto aborre quanto sa di unione federale o confederale che sia. Questioni di prospettiva, e di politica corrente. Se nella prima si può individuare un riflesso di insularità o di nostalgica spocchia post-imperiale, la seconda ha già provocato reazioni e situazioni paradossali. Pensiamo soltanto alla Polonia in mano alla destra nazionalista: Varsavia condivide il fastidio londinese per Bruxelles, ma rifiuta concessioni a Cameron, conscia che i propri migranti nel Regno Unito sarebbero colpiti dall’esclusione dal welfare britannico. Che Londra abbia solo da guadagnare da un ritorno, in ogni caso legittimo, alla propria esclusività è da dimostrare. La city si sente, ed è, già fuori dall’Ue; non lo è l’industria britannica (solo di nome, ormai) che deve pur commerciare con l’Oltremanica. Il Regno Unito poi non può garantire da sé la propria sicurezza, né affrontare un movimento migratorio epocale, tantomeno sentirsi al riparo da uno smembramento che lo ridurrebbe a pochissima cosa: tra la corona dei Windsor e l’Ue, gli scozzesi, sceglierebbero la seconda. Quanto all’Unione, l’uscita di un membro di tale rilievo non sarebbe indolore. Nel varco aperto da Londra potrebbero infilarsi altre capitali affette da una febbre nazionalista sempre più estesa. In ogni caso si tratterebbe della rottura di un processo storico che si credeva irreversibile o comunque sufficientemente solido da reggere a queste prove. Sarebbe in qualche modo l’inizio di una marcia a ritroso rispetto al cammino intrapreso dopo il 1945 grazie a una rara e fruttuosa condivisione di intenti delle tradizioni cristiano-sociale e socialdemocratica. La certificazione di un fallimento. Viceversa, un compromesso risolto a favore del Regno Unito pur di trattenerlo nell’Ue avrebbe un costo politico e un significato storico insidiosi. In un’Europa in cui cadesse il principio di reciprocità, se non di solidarietà, il precedente britannico alimenterebbe le (a quel punto plausibili) pretese altrui, confermando gli argomenti del sempre più esteso fronte ideologico della “Europa delle patrie”. Nel momento in cui “l’alternativa europeista” patisce gli effetti perversi del pensiero unico insediatosi a Bruxelles, e soprattutto della drammatica assenza di leadership, evitare il tonfo dell’Unione è una impresa disperata. Salvarne il guscio sarebbe già tanto. Ma inutile.

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