Commento

La questione è aperta

24 settembre 2015
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La questione non è chiusa. Come non bastò la pretesa di un titolo celebre a considerare “finita” la storia, non sarà un accordo faticosamente raggiunto in sede europea a contenere un fenomeno epocale come quello delle migrazioni, proprio perché di storia si tratta. Dunque la notizia dell’intesa raggiunta a maggioranza per il collocamento di 120mila profughi nei Paesi Ue è buona, ma soltanto nel senso che ne ha scongiurata una pessima, quella dell’incapacità totale, o del rifiuto di affrontare un’emergenza lancinante. Il piano approvato dai governi europei è un successo che ha tuttavia il costo politico della rottura (ieri solo in parte sanata) con alcuni Paesi dell’ex blocco comunista, contrari per ragioni più ideologiche che di oggettiva “sofferenza” a un’azione di pur minima solidarietà comunitaria. È un precedente, su cui le istituzioni europee e le politiche nazionali dovranno riflettere a fondo. Non tanto per l’abbattimento del totem dell’unanimità, quanto per le espressioni corse in queste drammatiche settimane, tali da far mettere in dubbio l’adesione di alcuni governi a uno stesso ordine di valori che chiamiamo “europei”. La lezione che ne deriva è che sarebbe illusorio ritenere appannaggio di opposizioni populiste o di minoranze chiassose quanto xenofobe argomenti e posizioni che fanno da fondamenta a chilometri e chilometri di filo spinato. Fanno presto ad arrivare al governo, e chi crede che basti blandirle assumendo i loro temi e il loro linguaggio, ne osservi i risultati. L’altra lezione è che sarebbe altrettanto illusorio presumere di bastare a se stessi (singoli Stati o Unione europea stessa) nell’affrontare e gestire un esodo di tale portata: il ruolo svolto da Paesi extra-Ue nel dare almeno un primo riparo ai migranti (o nell’assicurare la propria disponibilità ad accoglierne, come fa timidamente la Svizzera) chiarisce bene che una politica comune è la sola alternativa al circondarsi di muri fino a non poter più uscirne. Ma tutto questo è piccolo cabotaggio; amministrazione, seppur virtuosa, del condominio europeo, mentre intorno la terra trema. Tanta fatica, insomma, per accordarsi sull’accoglienza di 120mila profughi, mentre i dati Ocse prospettano per il 2015 un milione di richieste d’asilo in Europa. La sproporzione è evidente. Del resto i dati di diverse agenzie sugli arrivi (via mare o via terra) già registrati dall’inizio dell’anno avevano anticipato le dimensioni di questo capitolo della storia appena (ri)aperto. Un quadro non solo numerico, ma che illustra anche la natura della migrazione che muove dal Sud del mondo verso di noi, e che impone di riconoscere che mettere in salvo chi fugge da una guerra è soltanto una parte di ciò che i nostri Paesi sono chiamati a fare. Il soccorso prestato ai “siriani” (per il quale alcuni ministri, qua e là per l’Europa, si sono autoincensati) resterà il topolino partorito dalla montagna, se avrà esaurito capacità e volontà di affrontare il resto della storia. Vale a dire: riconoscere le migrazioni come fenomeno strutturale, peraltro non esclusivo del nostro tempo, per tentare di agire sulle loro cause e di non venirne travolti. Allora questa Europa (i governi che la reggono e gli abitanti che la popolano) può ricorrere all’intelligenza della propria storia per fare di un problema colossale un’opportunità, pur attraverso una rimessa in discussione delle proprie identità e dei propri standard di vita; oppure può credere a chi sostiene che la storia si può davvero fermare: il modo migliore per finirci sotto.

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