Commento

Una riforma su fragili basi 

17 settembre 2015
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Si vive sempre più a lungo, in media. Lo squilibrio tra lavoratori e pensionati si approfondisce (nel 1948 c’erano 6,5 persone attive per un pensionato, oggi la proporzione è scesa a 3,4/1). E nel prossimo decennio il grosso della generazione del ‘baby-boom’ (i nati fra il 1946 e la metà degli anni 60) si ritirerà dalla vita attiva. Sono anche tempi di vacche magre per le casse pensioni: i tassi di interesse negativi introdotti dalla Banca nazionale svizzera (Bns) danno e daranno loro filo da torcere. Infine, la riduzione del numero di lavoratori europei voluta dall’iniziativa ‘contro l’immigrazione di massa’ si tradurrà in un’inevitabile diminuzione dei contributi. Alain Berset lo ha ripetuto in questi giorni al Consiglio degli Stati: tenuto conto di questi sviluppi, se non si fa nulla l’Avs conoscerà un deficit di 9 miliardi di franchi all’anno a partire dal 2027, e il fondo Avs nel 2030 sarà vuoto. Nemmeno il secondo pilastro se la passerà tanto bene. Nessuno oggi contesta la necessità di riformare in tempi brevi il sistema della previdenza vecchiaia. E dopo le pesanti critiche piovute da destra e da sinistra sulla ‘riforma Berset’ durante la fase di consultazione, nel frattempo tutti sembrano essersene fatta una ragione: tecnicamente – ma soprattutto politicamente – è meglio farlo con una visione d’assieme, anziché procedendo per compartimenti/pilastri stagni e, all’interno di ciascuno di essi, isolando singole misure, di solito facilmente referendabili e indigeste alla popolazione. Lo spettro di una nuova stroncatura in votazione popolare – come avvenne nel 2010 con la diminuzione del tasso di conversione Lpp, un drastico taglio alle prestazioni senza alcuna contropartita – ha aleggiato costantemente sui dibattiti di questi giorni alla Camera dei Cantoni. Hanno voluto fare in fretta gli influenti ‘senatori’ membri della Commissione della sicurezza sociale e della sanità. Si trattava di mettere fieno in cascina ancora in questa legislatura agli sgoccioli, prima che il pronosticato mutamento degli equilibri politici compromettesse le chance di una delle maggiori riforme della storia dello Stato sociale in Svizzera. È poco probabile però che il compromesso ‘sexy’ escogitato in extremis – compensare la diminuzione dal 6,8% al 6% del tasso di conversione Lpp con un aumento di 70 franchi al mese delle future rendite Avs, di 226 per le coppie – esca indenne dalla prossima tornata parlamentare. A destra, Udc e Plr tirano già le prime bordate (non proprio a torto, cfr. intervista a pagina 6) contro una politica dell’“innaffiatoio” sulle spalle delle giovani generazioni. Gli ambienti economici restano moderatamente critici. I primi mugugni si fanno sentire anche nel gruppo Ppd, probabile futuro ago della bilancia al Nazionale, e i cui ‘senatori’ (l’uscente Urs Schwaller su tutti) figurano tra i promotori della soluzione che ha avuto il merito di neutralizzare sin qui le velleità di Ps e sindacati. La sinistra, appunto. La sua iniziativa popolare ‘AvsPlus’, bocciata in giugno dagli Stati e destinata a ugual sorte al Nazionale, chiede un aumento del 10% di tutte le rendite Avs (attuali e future), così da ridurre significativamente il divario crescente tra salari e rendite. Per ora Ps e Unione sindacale svizzera (Uss) sembrano accontentarsi del “primo sostanziale aumento delle rendite Avs” degli ultimi 20 anni. Non è poco, e in ogni caso in tempo di elezioni può bastare. Con buona pace, per ora, del mandato costituzionale secondo il quale le rendite di primo e secondo pilastro devono servire a mantenere il proprio tenore di vita anche durante la vecchiaia.

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