Commento

Il falò delle illusioni

8 luglio 2015
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È ancora presto per intonare il De profundis per l’Europa, ma il male di cui in questi giorni è venuta grottescamente in superficie la gravità è davvero di quelli che potrebbero segnarne il destino. In poche ore si sono viste bruciare vanità, arroganza e illusioni che a loro modo erano portatrici di diverse idee di Europa, conflittuali se non inconciliabili. Domenica scorsa, Angela Merkel ha perso la scommessa del ridimensionamento, via referendum, di Alexis Tsipras; mentre lo stesso Tsipras si è trovato con una inutile vittoria tra le mani, dovendosi presentare a batter cassa agli stessi interlocutori di prima, ora però molto meno disponibili a eventuali concessioni. Ormai è inutile riandare al perché si sia giunti a una simile situazione paradossale, recriminare sulle responsabilità passate e su quelle che Tsipras non si vuole assumere, perché lo scarto che si è prodotto tra un’Europa e l’altra sembra sufficientemente ampio e profondo da segnare di per sé il tempo che l’Unione sta vivendo. Scarto che fa data nella Storia, non meno dei trattati a cui l’Unione si àncora. E che testimonia la gravità del tradimento consumato dalle élite cristiano-sociali e socialdemocratiche ai danni del magnifico mandato storico che si erano date concependo un “comune destino” per un continente altrimenti devastato da guerre ricorrenti. Oggi, alla prova di un indigesto, ma necessario esercizio di solidarietà, l’establishment europeo si è dimostrato ben meschino; e in una, pur discutibile, verifica democratica del proprio concetto di rigore è stato clamorosamente sconfessato. La speranza covata dai custodi dell’ortodossia tecnofinanziaria di “punirne uno per educarne cento” è risultata vana. Non è morta – come dimostrerà nei prossimi giorni l’ordalia a cui sarà costretto Tsipras – ma certamente i suoi sacerdoti dovranno rifare i conti ogni volta che la parola tornerà agli elettori di questo o quel Paese. Il deficit di cui soffre l’Unione non è infatti quello che deriva dalla ovvia cessione di sovranità dei Paesi membri (molti dei cui governi l’hanno già ceduta, senza far storie, all’invasività della finanza), ma essenzialmente democratico. Un deficit iscritto nell’impianto istituzionale europeo, garante di burocrazie e governi più che dei cittadini e dei loro diritti; la cui gravità si è manifestata, per paradosso, con i volti e le sigle politiche che un po’ ovunque in Europa hanno osannato la “vittoria del popolo greco”: da Marine Le Pen a Grillo, dalla destra estrema ai resti della sinistra movimentista. Tutte espressioni di uno stesso ripiegamento che si nega all’assunzione di responsabilità, che respinge un orizzonte di condivisione europeo (sono contenti per Atene, ma non ne pagherebbero i debiti) concentrato com’è su istanze localistiche o tutt’al più nazionali(stiche). Il problema è che da sintomo di un guasto, questi movimenti ne sono divenuti i principali beneficiari. Vagli a spiegare che il sogno di un’Europa fatta di tante piccole Svizzere è infantile e nocivo. Che una catastrofica irrilevanza ne sarebbe l’esito storico. Lo smembramento del corpo caldo dell’Unione è ormai il loro discorso; l’accanimento con cui vi si dedicano è la garanzia di un sempre maggiore consenso. Si votasse oggi, molti governi tanto severi con Tsipras dovrebbero tremare. E se del capo del governo greco sarà facile disfarsi e dimenticarsi, la frattura prodottasi in questa circostanza continuerà a dolere. E l’Europa dovrà dirsi fortunata se potrà continuare, però zoppa, a camminare.

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