Commento

Con Erdogan il Bosforo si allarga

18 aprile 2015
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Recep Erdogan ha un bell’inaugurare ponti: le sponde del Bosforo non fanno che distanziarsi. Delle due conseguenze della crisi originata dalle parole di papa Bergoglio a proposito del genocidio armeno, quella più temuta dal presidente turco, a dispetto delle sue millanterie, è senz’altro l’ulteriore peggioramento delle relazioni con l’Europa. L’altra, cercata invece ad arte, è la trasformazione in conflitto confessionale cristianesimo-islam di una questione storiografica pretestuosa, giacché la morte di almeno mezzo milione di persone in una catena consequenziale di eventi altro non è che genocidio. Questa seconda conseguenza ha un devastante potenziale di violenza, e si direbbe che solo un irresponsabile cinismo muove Erdogan a evocarla.
Se bastasse l’approssimarsi del voto legislativo a spiegare l’escalation verbale del presidente turco (costretto al registro più nazionalista per recuperare i voti che le difficoltà del suo partito Akp potrebbero per la prima volta fargli perdere) allora si potrebbe derubricare la polemica a mero espediente dovuto alle contingenze.
Ma non pare così. È piuttosto l’autoritarismo crescente della sua politica a ispirargli (o a costringerlo a) scelte e atteggiamenti – ultimo, quello seguito alle parole di Bergoglio – che se da un lato concorrono a profilarlo come uomo forte di una nazione in altrettanto forte crescita, dall’altro cominciano a gravare sul consenso interno. Mentre gli sono già costati più di un fallimento in politica estera: dal vano tentativo di accreditarsi come un nuovo Nasser delle primavere arabe, al disastro siriano (nel quale va considerata l’oscena ambiguità nei confronti dell’Isis), alla partita persa con Teheran (almeno per ora) per il posto tra gli interlocutori imprescindibili della politica internazionale.
Ma è appunto con l’Europa che la posta è troppo elevata per essere perduta. Tanto da non potersi considerare “politica estera”. Erdogan può insistere a cercare spazi nella vasta area turcofona centroasiatica, ma è all’Europa che la Turchia moderna è volta. Perdere la Turchia per l’Europa sarebbe un guaio. Perdere l’Europa per la Turchia sarebbe un disastro.
Sono note le corresponsabilità europee all’origine delle ricorrenti frizioni con Ankara: dal pregiudizio anti-turco di non poche delle élite politiche nazionali; a un retaggio culturale duro a estinguersi che ha soprattutto nell’islam il nemico da battere; alla condotta ondivaga sul negoziato di adesione della Turchia all’Ue (che peraltro alberga governi liberticidi come quello dell’ungherese Orban, e flirta con quello revisionista di Kiev). Ma si direbbe che Erdogan non soltanto confermi i pregiudizi dei nostalgici di Lepanto, bensì ci metta del suo per fornire loro nuovi argomenti.
La suscettibilità astiosa mostrata in questo ultimo episodio, testimonia la distanza tra la sua leadership e le condizioni necessarie ad avere un ruolo non subalterno o conflittuale con l’Europa: tra le quali la disponibilità a una lettura onesta, benché faticosa e talvolta dolorosa del proprio passato.
È il paradosso della “Turchia secondo Erdogan”, la contraddizione di un presidente impegnato a riedificare per sé una grandeur ottomano-islamica, ma spregiudicato nel cavalcare i tabù che hanno strutturato un secolo di repubblica laica. Una partita dall’esito improbabile. Se il riconoscimento del genocidio armeno può avere un costo politico interno di rilievo, la sua ostinata, astorica negazione rischia di averne uno infinitamente maggiore: un’Europa un po’ pavida e un po’ opportunista non si spingerà fino a mettere all’angolo Erdogan, ma lo “dimenticherà”, e con lui un Paese al quale aveva assicurato di aprire la porta.

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