Commento

L'Europa ammalata

3 gennaio 2015
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Sopravvivrà l’Europa? Non intendiamo a Putin, ai jihadisti di ritorno, ai poveracci che tentano di raggiungerla con ogni mezzo. Piuttosto: sopravviverà l’Europa a se stessa?
Il più interessante progetto politico e istituzionale sortito dal dopoguerra (più di un’Alleanza atlantica di natura strategica, in mani Usa; più di un Patto di Varsavia fondato su basi coercitive) pare aver fallito il passaggio all’età matura, per trovarsi in una crisi di gravità inaudita, sulla cui soluzione è lecito disperare.
Più infatti degli agenti esterni (dalla crisi finanziaria esplosa nel 2008 e non più rientrata, a quelle geopolitiche incistatesi ai margini dell’Unione), il male dell’Europa è tutto endogeno, e le “circostanze” hanno semmai concorso al suo precipitare. In particolare è tutta europea la manipolazione della propria storia e del suo significato, da parte di coloro che si vogliono suoi difensori e, in uguale misura, di coloro che l’attaccano a testa bassa.
Dire cioè che quello di una unione continentale fu un disegno egemonizzante è un falso storico colossale: dopo una guerra costata decine di milioni di morti, il progetto di una unione era, al contrario, la testimonianza di una lezione appresa e trasformata in speranza. La cui luce riverberò convincendo i cittadini dei Paesi assoggettati all’Urss che valeva la pena resistere e farci conto.
Il peccato mortale lo hanno compiuto governi e parlamenti approvando trattati che vincolano le democrazie dei rispettivi Paesi alle decisioni di un multiforme direttorio, la cui ideologia mercatista ha fatto strame dell’orizzonte ideale degli Spinelli, e che, soprattutto, gode di uno status di insindacabilità e di irresponsabilità davanti ai cittadini-elettori dell’Unione. In questo senso l’aborrita “cessione di sovranità”, denunciata ormai non più soltanto dalle estreme destre, è uno specchio per le allodole. La cessione di democrazia è il vero guasto (e i garruli vincitori di un giorno farebbero bene a considerare quale risultato è sortito dalla bocciatura referendaria della prima, imperfetta, Costituzione europea…).
Effetto e specchio di queste contraddizioni è il proliferare dei movimenti che sull’attacco all’Europa mietono consensi e lucrano successi elettorali. La caratura dei loro leader è ancora da provare, e per la gran parte si tratta di bertoldi più bravi a spernacchiare il re che a sostituirvisi. Tuttavia la loro diffusione sempre più omogenea e la loro crescita numerica non possono più farli considerare marginali. Presto o tardi si imporranno come obbligati, seppur sgraditi, interlocutori.
In ritardo, timorose e ipocrite nell’affermazione dei valori fondanti, le dirigenze europee sembrano esserseli fatti sottrarre dagli esagitati che li hanno manipolati e trasformati in slogan adatti a suscitare e cullare pulsioni identitarie e risvegli nazionalisti.
Parafrasando Croce, potremmo affidarci a un “non possiamo non dirci europei. Razionalizzando la lettura di una storia comunque comune, seppure declinata nella diversità delle mille culture che l’hanno nutrita a loro volta nutrendosene”, per tentare di non disperare.
Ma poiché la stessa non remota storia d’Europa mostra che le migliori intenzioni hanno spesso finito per soccombere o per divenire complici delle peggiori, direi che è meglio andar piano con l’ottimismo.

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