Commento

La giustizia e il diritto

20 novembre 2014
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Chiedevano giustizia i famigliari e gli amici delle vittime della ‘fabbrica della morte’ di Casale Monferrato e di altri tre stabilimenti italiani della Eternit. Ieri dopo anni di speranze hanno avuto il ‘diritto’, ovvero quella prescrizione che “non risponde alle esigenze” della giustizia. Perché il giudice – ha ricordato il sostituto procuratore della Cassazione Francesco Iacoviello, chiedendo di dichiarare prescritto il reato contestato a Stephan Schmidheiny – non deve “piegare il diritto alla giustizia”: “soggetto alla legge”, di fronte all’uno e all’altra, il giudice “deve scegliere il diritto”. 

 E non basta certo a consolare chi è rimasto sentirsi ripetere (sempre Iacoviello) che l’imputato “è responsabile di tutte le condotte a lui ascritte”, condotte peraltro dettagliate nelle motivazioni di una sentenza d’appello che nel giugno 2013 aveva aggiunto altri due anni (da 16 a 18) alla condanna di primo grado per ‘disastro ambientale doloso permanente’.

Esistono buone ragioni per indignarsi: i morti di Casale, Cavagnolo, Rubiera e Bagnoli si contano a migliaia; lì e altrove la gente continuerà a morire per aver inalato le polveri di amianto; in Europa il picco dei decessi – a causa del lungo tempo di latenza delle malattie che ne derivano – lo avremo soltanto nei prossimi anni; e Schmidheiny (così ha stabilito appunto la Corte d’appello: la Cassazione non è entrata nel merito dei fatti) aveva “piena consapevolezza” del “nesso causale che univa le fibre di asbesto alle patologie tumorali”: nonostante ciò organizzò “un’opera di disinformazione” allo scopo di “impedire che i numerosi settori della collettività ancora interessati a utilizzare i manufatti in cemento-amianto divenissero pienamente consapevoli dell’elevata nocività delle fibre sprigionate e pretendessero interventi che, se eseguiti, avrebbero reso di fatto impossibile e comunque troppo oneroso l’esercizio delle attività produttive”.

Ci fermiamo qui adesso con ‘giustizia’ e ‘diritto’, limitandoci per il resto ad alcune constatazioni. La prima è che bene o male questo processo – oltretutto il primo in Europa che abbia visto alla sbarra i proprietari delle fabbriche che producevano manufatti in amianto, non i loro direttori – ha potuto avere avuto luogo. Merito soprattutto dei familiari e degli amici delle vittime di Casale Monferrato, dei molti che in Italia e all’estero li hanno sostenuti, e di un testardo procuratore (Raffaele Guariniello) che già nel 2001 cominciò a indagare sulle morti per mesotelioma (tumore alla pleura dovuto all’inalazione delle polveri di amianto) tra gli ex emigranti italiani morti in patria dopo aver lavorato negli stabilimenti svizzeri della Eternit a Niederurnen (Glarona) e Payerne (Vaud). Merito soprattutto loro, certo, ma anche – e sembra paradossale dirlo oggi, alla luce del verdetto della Cassazione che ha sorpreso gli stessi difensori di Schmidheiny – di un quadro legale che non nega di fatto l’accesso ai tribunali alle persone ammalate e ai loro parenti. E qui veniamo a noi. In Svizzera chi ha inalato le polveri d’amianto e s’ammala – come spesso capita in questi casi – fino a 30-40 anni dopo l’esposizione, non ha in pratica alcuna possibilità di presentare una richiesta d’indennizzo alla giustizia. Al momento della diagnosi, infatti, il termine di prescrizione (10 anni) è quasi sempre abbondantemente scaduto. Le vittime e i loro famigliari sono tagliati fuori in partenza. Ciò è valso di recente a Berna una condanna da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo: invocando l’avvenuta prescrizione per rifiutare un indennizzo, la Svizzera – hanno sancito i giudici di Strasburgo – ha violato il diritto dei familiari di una vittima dell’amianto ad un processo equo. Ora alle Camere si discute della possibilità di allungare il termine di prescrizione. Se ne farà poco o nulla, viste le forti resistenze in campo. E in ogni caso, osserva la stessa Cedu, servirà a poco allungare la prescrizione se questa decorrerà a partire dall’ultima esposizione, spesso risalente a decenni prima, anziché dal momento in cui una persona si rende conto di essersi ammalata.

Un’ultima considerazione: Schmidheiny ieri ha visto la sua condanna annullata, ma lo attende un processo Eternit-bis nel quale l’imputazione è di omicidio volontario di 213 persone. Forse la giustizia cederà ancora il passo al ‘diritto’, e in virtù di quest’ultimo l’ex patron della Eternit se la caverà di nuovo. Forse soltanto delle ‘commissioni verità’ stabiliranno un giorno le piene responsabilità storiche e morali di chi come lui per decenni ha tratto profitto (e continua a farlo: in Russia, in Cina e nei Paesi emergenti dove non è proibito) dal minerale cancerogeno. Forse... Nel frattempo, quel che è certo è che si guarderà a Casale Monferrato come il luogo in cui il dramma dell’amianto – a differenza di quanto avviene altrove, con le vittime che continuano a morire nell’anonimato e sole, confortate al massimo da familiari e amici – si è per così dire ‘collettivizzato’, diventando patrimonio comune non solo degli abitanti della cittadina piemontese, ma di tutti noi.

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