Economia

Wef, la discesa dalla Montagna Incantata

A Davos ogni anno vengono fatte previsioni sullo stato dell’economia e dell’umanità: indovinano sempre il passato, raramente quello che sta per accadere

Ora al posto del Cremlino parlano gli ucraini
(Keystone)

Lo 0,01% che doveva salvare il mondo è tornato di nuovo sulla Montagna Incantata. Senza neve e senza moon boot, questa volta, dopo due anni di assenza causa virus. Il clima, però, è sembrato più quello di un tardo autunno che di una primavera. Non poteva che essere così, al World Economic Forum 2022 di Davos.

Negli ultimi tempi, nell’incontro alpino, l’élite suprema della classe globale con milioni di punti frequent-flyer e flotte di aerei privati si era data, non necessariamente richiesta, il compito di risolvere i problemi dell’umanità. Naturalmente il clima, poi le ingiustizie sociali, e lo shareholder capitalism da sostituire con lo stakeholder capitalism, i pericoli dell’Intelligenza Artificiale, le pandemie, la cooperazione tra i popoli, e perché no il governo mondiale. Grandi frasi e dichiarazioni ora però terminate e offuscate dall’ombra lunga di Vladimir Putin, egli stesso un tempo (2009) uomo di buona volontà a Davos quando diceva, guardando negli occhi politici, imprenditori e banchieri, che «dobbiamo rendere le relazioni internazionali meno pericolose… e dobbiamo continuare con le misure di disarmo». Davvero parecchi gli dettero credito.

La strada

Prima di prendere la strada francescana in aiuto dei più poveri del mondo – in pratica prima della Grande Crisi che li ha spaventati nel 2008 – i più ricchi del mondo si incontravano sulle nevi svizzere per celebrare la globalizzazione della quale erano protagonisti. Avevano ragioni per farlo: l’apertura dei mercati, le nuove tecnologie, il mondo piatto facevano alzare il mare della ricchezza e tutte le barche salivano.

Certo, si facevano anche affari: con una concentrazione unica di Ceo, di banchieri, di petrolieri e di primi ministri sarebbe stato un crimine non parlare di business. E, certo, feste tutte le notti della settimana, con i ricevimenti indiani e sudafricani, cosa di meglio per l’élite globale. Dopo la caduta dell’Impero Sovietico, le paure erano scomparse, a cominciare da quelle delle guerre. E dopo gli attentati dell’11 settembre, il Forum del 2002 si spostò a New York, al Waldorf Astoria, per dire che nessuno avrebbe fermato il mondo.

Era il business, soprattutto quello multinazionale, a guidare le danze, non più la politica. "Fate i soldi, non la guerra", ha riassunto con lo slogan non ufficiale di quegli anni un commentatore del Financial Times.

Sono successe le cose più diverse, negli anni, a Davos. Dmitry Medvedev si presentava con la faccia aperta e affabile del russo moderno: oggi è il più falco dei falchi di Mosca. Bill Clinton ammaliava la platea con il racconto dell’ineluttabile marcia parallela della globalizzazione e della democrazia. Yasser Arafat portava un attacco rovente a Israele, per concludere che era pronto alla pace. Shimon Peres veniva onorato con il primo Spirit of Davos per avere sostenuto la missione del Forum di «migliorare lo stato del mondo».

Angela Merkel teneva tutti con gli occhi su di lei anche se non diceva niente. Xi Jinping si presentava come il grande difensore delle regole del commercio e del mondo aperto: e i capitalisti in sala lo applaudivano con entusiasmo. Nel 1998, banchieri e Ceo scapparono dalle nevi a metà settimana perché stava scoppiando una crisi finanziaria. E ogni anno vengono fatte previsioni sullo stato dell’economia e dell’umanità: indovinano sempre il passato, raramente quello che sta per accadere.

L’invito, quasi un ordine, "mettete i soldi dentro i vostri cannoni" ha mantenuto in forma il Forum per un trentennio. Ora, inevitabilmente prevale lo sconforto. Non che qualcuno si dica pentito di non avere visto arrivare Putin o di avere sopravvalutato Xi Jinping. No, non succede. È che gli annunci sulla de-globalizzazione in progress fanno vacillare le strategie del Big Business e minano il senso stesso dell’happening di Davos.

La managing director del Fondo monetario internazionale, Kristalina Georgieva, ha avvertito di «un rischio acutamente cresciuto di una frammentazione geoeconomica». Il Paese di cui, da tre mesi, più si parla nel mondo al Forum non c’è: la Russia quest’anno è stata esclusa. Gli oligarchi che intrattenevano a vodka e caviale non sono ospiti graditi. La Davos che aveva giocato un ruolo importante nel preparare l’ingresso della Russia nell’economia mondiale dopo il crollo dell’Unione Sovietica, un passaggio chiave della globalizzazione, ora le chiude le porte. Al posto del Cremlino, parlano gli ucraini: Volodymyr Zelensky in collegamento con le sale del brutto e brutalista centro congressi.

La guerra ha certificato la fine di un’era e il Forum non può che prenderne atto. Anche quando l’invasione dell’Ucraina sarà terminata, «la situazione non tornerà mai quella che era prima», ha affermato George Soros. «Abbiamo finito il dividendo della pace», ha convenuto Ian Bremmer, il presidente dell’Eurasia Group.

Raramente è stato simpatico il World Economic Forum. Un club dei più ricchi che dicono di volere risolvere i problemi dei più poveri fatica a esserlo. Raramente ha avuto la vista lunga e infatti il ritorno della geopolitica e della competizione tra potenze non l’ha previsto. Una funzione però l’ha avuta: ha accompagnato trent’anni di libertà dei mercati che hanno fatto bene al mondo, anche in Russia e soprattutto in Cina.

Ora, è il momento di scendere dalla Montagna Incantata: come nel romanzo di Thomas Mann, ambientato in un sanatorio di Davos, siamo alla fine di una Belle Époque.

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