Economia

Il paradosso delle borse dell’Eurozona

Pur con l’inflazione al 7,5%, la Bce non seguirà la strada della Fed: i tassi resteranno a zero per tutto il 2022 o saliranno al massimo di 50 punti

(Keystone)

C’è un evidente paradosso nel comportamento delle borse d’Eurozona: dai minimi provocati dalla guerra in Ucraina (nella prima metà di marzo), l’indice Stoxx, come pure il nostro Ftse Mib, è rimbalzato più di Wall Street (+11% contro +9%). Strana reazione, se si considera che il prezzo del gas, di cui Germania e Italia sono dipendenti per quasi la metà del fabbisogno, s’è moltiplicato di cinque o sei volte rispetto a un anno fa: senza contare il quasi azzeramento degli scambi commerciali con la Russia che in Italia contano circa il 2% del Pil, ma sono insignificanti per gli Stati Uniti. Si direbbe che un paradosso si contrappone a un altro: perché nella crisi dei tassi d’interesse di gennaio, innescata dalle prospettate strette monetarie della Fed, furono invece i mercati d’Eurozona a patire più dell’America.

Il rimbalzo

Uno dei rimbalzi più rapidi e violenti dei mercati azionari ha riportato l’S&P 500 e lo Stoxx poco sotto i livelli record di gennaio. Ma parecchie cose sono cambiate da allora. Negli Stati Uniti si prospettano strette monetarie almeno doppie di quanto si stimasse a inizio anno e il tasso Fed è visto salire oltre il 2,5% per fine anno, nel tentativo di frenare un’inflazione balzata al 7,9%. Di conseguenza il rendimento del titolo a 10 anni ha superato il 2,6% e quello del Treasury a 2 anni è volato al 2,50%, più che raddoppiando da fine dicembre. Meno vistosa parrebbe la crescita dei rendimenti in Eurozona, poiché il Bund a 2 anni è risalito a zero (da -0,64% di fine dicembre) e il 10 anni ha recuperato circa 75 centesimi (allo 0,67%): la Bce, concordano gli analisti, non seguirà la strada della Fed, pur con l’inflazione salita al 7,5% i tassi resteranno a zero per tutto il 2022, secondo le stime di BofA, o saliranno al massimo di 50 punti secondo altri.

Perché così poco? Perché la Bce si ritroverà verso fine estate nella condizione di rendere espansiva il più possibile la propria politica monetaria per far fronte al forte rallentamento economico provocato dalla guerra in Ucraina, rispondono gli analisti. E qui sta il punto: la forte vulnerabilità dell’Eurozona. Ancora a febbraio, quasi ci si cullava nell’idea che l’inflazione europea fosse strutturalmente diversa da quella americana e per questo meno violenta e più transitoria. Si faceva notare come l’inflazione core, a differenza degli Usa, fosse sostanzialmente sotto controllo e così parrebbe anche ora, osservando gli ultimi dati (3,2% contro 6,4% deli Usa).

Ma conta ben poco, perché prezzi al consumo in continua ascesa verso il 10% a causa del combinato effetto del costo del petrolio (108 dollari) e soprattutto del gas (110 euro per Kw) rappresentano già di per sé una formidabile tassa sul potere d’acquisto delle famiglie. Ma, a peggiorare sostanzialmente la situazione rispetto agli Usa è che l’aggravio dei costi pesa enormemente sulle imprese d’Eurozona che rischiano di perdere competitività e, in ogni caso, vedono ridursi i margini reddituali. I maggiori oneri per l’energia (e per le altre materie prime) finiscono per trasferirsi su tutti i prodotti finali e l’effetto si amplifica con gli aumentati costi di trasporto. L’economia americana, autosufficiente sul fronte energetico, dovrebbe restare relativamente immune e lo proverebbe la buona tenuta degli indici manifatturieri. La crescita dell’inflazione è più la conseguenza di una domanda esuberante (grazie ai passati sussidi) che l’effetto dei maggiori costi di produzione: per questo l’inasprimento delle condizioni monetarie (i tassi Fed) ha più senso.

Al contrario, la Bce si trova in una ben più drammatica situazione: tentata di alzare i tassi e cessare gli acquisti di titoli nella speranza di frenare l’inflazione, ben sapendo che così facendo potrebbe innescare una recessione e persino una nuova crisi dei debiti sovrani nei paesi periferici.

In questo imbarazzo la prudenza consiglia di attendere e di dosare le misure monetarie in base agli eventi. Ma, anche nella felice ipotesi di una non lontana conclusione del conflitto in Ucraina, le conseguenze delle sanzioni alla Russia e delle ritorsioni peserebbero a lungo sulle economie dei paesi euro. Se può essere di qualche utilità scrutare l’andamento dei future sul gas naturale al mercato di Amsterdam, il prezzo dovrebbe restare per parecchi mesi attorno agli attuali livelli (circa 110 euro per Mw) per scendere attorno a 70 euro solo verso la fine del prossimo anno: ben ricordando che, anche a 70 euro, il costo del gas corrisponderebbe a un aumento del 250% rispetto a quanto si pagava negli anni scorsi.

Di tutto questo dramma non c’è traccia nel comportamento delle borse, sebbene qualche accenno di disagio si sia notato nelle ultime sedute della scorsa settimana, e soprattutto non c’è segno nelle stime degli utili societari. Il consenso (Refinitiv) vede gli utili per azione salire quest’anno dell’8,8% per l’S&P500, più ancora di quanto si pensasse a inizio gennaio (8,4%), in linea con un’eguale, presunta crescita dei ricavi. Più sconcertanti sono le stime per i titoli dello Stoxx: utili per azione in crescita del 13,5% circa, oltre tre punti più delle previsioni di gennaio. Ed è lecito chiedersi se, con rendimenti dei titoli di stato più che raddoppiati in tre mesi e previsioni di crescita economica tagliate di almeno un punto percentuale negli Usa e di oltre due punti in Europa, con costi di produzione fortemente lievitati ovunque, sia concepibile una crescita dei profitti a due cifre, o quasi, e un’ulteriore espansione dei margini reddituali.

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