In vista del voto

Contro un Ticino rassegnato

23 settembre 2019
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Cronaca di questi giorni, da tre differenti portali ticinesi.

Il primo episodio è relativo a un annuncio: a Lugano, una famiglia cerca una baby-sitter per 7/10 euro all’ora (il compenso è proprio espresso nella valuta europea), peraltro “da negoziare”.

Il secondo, anch’esso relativo a un annuncio: un’azienda leader nel campo delle telecomunicazioni cerca un impiegato, il cui primo titolo preferenziale sia la residenza lungo la fascia di frontiera “conformemente al permesso di lavoro svizzero G”.

Il terzo è il titolo di un portale: “Una ditta luganese (il cui titolare è italiano ndr) vuole assumere 400 persone, a Napoli”.
In altri Paesi, queste notizie avrebbero probabilmente causato disordini di piazza. In Ticino, invece, ci siamo abituati a un mercato del lavoro così inquinato dalla mancanza del giusto equilibrio per garantire le migliori condizioni sia per le imprese che per le persone che vi lavorano, che quasi non ci facciamo più caso. Ma di notizie come quelle di cui sopra sono pieni i giornali, e non passa settimana che non vengano diffusi particolari umilianti per un mercato del lavoro ormai fuori controllo.

Per chi, come il sottoscritto, nel corso della propria carriera professionale ha creato quasi cento posti di lavoro in un periodo in cui le imprese, più che assumere, licenziavano, è mortificante vedere come, in Ticino, la situazione sia sfuggita di mano e ci si culli nell’illusione che, comunque vada, viviamo nel migliore dei mondi possibili. Non è così. A dircelo non è il pessimismo, ma i dati. Quelli veri, ufficiali, non quelli imbellettati, diffusi a rate e in dosi omeopatiche per non turbare eccessivamente l’opinione pubblica.

Per il Canton Ticino, l’Indicatore dell’Ufficio internazionale del lavoro, ovvero quello utilizzato a livello internazionale per calcolare il numero dei disoccupati, ci parla impietosamente di un tasso di senza lavoro del 6,1%. Si tratta di una percentuale persino più elevata di quella della vicina Lombardia, che si attesta al 5,4%.

Nessuno nega che i frontalieri siano importanti per l’economia cantonale, ma a tutto dev’esserci un limite, altrimenti è la giungla. Inoltre, credere che tra gli oltre 12mila ticinesi senza lavoro (la somma di quelli iscritti agli Uffici regionali di collocamento, circa 4’300, e delle persone in assistenza, circa 8’300), non ce ne siano svariate centinaia in grado di fare ciò che fanno almeno alcuni, tra i 64mila frontalieri, risulta davvero difficile da credere.

Occorre dunque affrontare di petto il problema, in primo luogo applicando seriamente ciò che i cittadini svizzeri hanno deciso votando a favore dell’Iniziativa contro l’immigrazione di massa e applicando le disposizioni contenute nell’Iniziativa cantonale “Prima i nostri”. Ma non solo. Ritengo sia importante mettere a disposizione incentivi per facilitare l’assunzione degli ultracinquantenni, una delle categorie più penalizzate tra i senza lavoro; va approvata l’iniziativa Ppd under 30 per la formazione e l’occupazione; va istituito un fondo di dieci milioni di franchi per la formazione digitale nelle scuole dell’obbligo; vanno messi a punto nuovi e moderni percorsi formativi e, infine, occorre migliorare il dialogo con il mondo delle imprese per tastare il polso, in tempo reale, alle esigenze del mercato ed essere pronti per offrire ciò che il mercato richiede. Insomma, dobbiamo trovare il giusto equilibrio sia per garantire un lavoro a chi non ce l’ha, sia per chi ha bisogno di personale qualificato.

Soprattutto, non dobbiamo far vincere la rassegnazione che, comprensibilmente colpisce tanti disoccupati. Vorrebbe dire che questo Cantone non ha più futuro.


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