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Polo ad alta tensione

(Ti-Press)

Circola un’aria da casinò intorno al Polo sportivo e degli eventi (Pse), in votazione – nel comune di Lugano – il prossimo 28 novembre: prendere o lasciare, «rien ne va plus». Peccato. Perché un progetto del genere, così articolato e finanziariamente oneroso, dentro un incastro tra pubblico e privato, meritava un’informazione migliore fin dagli abbozzi iniziali. Una marcia di avvicinamento che non temesse il confronto con gli abitanti, i quartieri, le sezioni dei partiti, l’universo associativo, i circoli culturali. Tappa dopo tappa, un iter che i politologi chiamano “democrazia deliberativa”: si convocano assemblee, si illustrano varianti e alternative, si discute (urbanamente) e poi si va alla decisione. Un modo intelligente per assicurarsi il consenso preventivamente.

Così non è stato. Solo negli ultimi mesi si è cercato di recuperare, mossi dall’incedere incalzante del referendum promosso dal Movimento per il socialismo (Mps). Ma ora gli animi sono eccitati, volano parole grosse, insulti, minacce.

Perfino i partiti di maggioranza sono spaccati, facendo emergere interessi divergenti, non tutti nobili. E poi c’è la sinistra, divisa – come spesso accade – tra ala governativa e fronda di protesta.

Che Lugano abbia bisogno di ridisegnare il comparto di Cornaredo è fuori discussione. Ad osservarlo dall’alto vengono in mente i non-luoghi di Marc Augé, aree disordinate e senz’anima assediate dal traffico, oppure una manciata di edifici gettati al suolo da una mano svogliata. Ma purtroppo questa è la logica in cui oggi agiscono gli attori: prevalgono le regole del mercato, oltre il perimetro dell’iniziativa privata non c’è quasi margine d’azione per l’ente pubblico. Si vorrebbe sentir parlare di “politica per la casa” e di “alloggi popolari” degni di questo nome. E invece il massimo risultato conseguibile è la foglia di fico della “pigione moderata”, tutto il resto è fuori dalla portata del ceto medio.

Non è nostra intenzione gettare la croce addosso ad architetti e urbanisti. Anche loro devono poter vivere e lavorare, assecondando lo spirito del tempo. Ma proprio qui sta il punto. L’impressione è che un certo numero di parole-concetto sia scomparso dal vocabolario dell’architettura contemporanea: aggettivi come “sociale” e “popolare” sono svaniti, cancellati dagli orientamenti dettati dai nuovi committenti, interessati unicamente ai profitti e alla rendita immobiliare. Infatti l’edilizia privata prospera, infischiandosi dello sfitto crescente e della dilagante cementificazione.

Eppure il secolo che ci siamo lasciati alle spalle è stato un periodo fecondo per l’architettura sociale. Pensiamo all’opera di Hannes Meyer, nato a Basilea nel 1889 e morto a Crocifisso di Savosa nel 1954. Fu lui a progettare nel primo dopoguerra (1919-1923) la cooperativa abitativa di Freidorf a Muttenz, un insediamento tuttora esistente; sua fu anche la colonia di vacanza per fanciulli costruita a Mümliswil (Soletta) alla vigilia del secondo conflitto mondiale. Influenzato dalla scuola del Bauhaus, di cui assunse anche la direzione, Meyer fu attivo in Germania, Unione Sovietica e Messico, guidato dall’idea che bisognasse offrire anche alla povera gente ambienti lindi e salubri, serviti da acquedotti e luce elettrica. La colonia di Mümliswil era intesa a ospitare bambini di debole costituzione provenienti dai ceti popolari, così da rimetterli in salute attraverso un’alimentazione adeguata, stanze e locali confortevoli, tanto sport e movimento.

Erano momenti difficili, anche dal punto di vista occupazionale. Gli investimenti nel settore delle costruzioni permettevano da un lato di ridare ossigeno alle imprese e dall’altro di ammodernare le abitazioni, dotandole di spazi più luminosi, servizi igienici e fognature. Nell’Italia post-1945 il rilancio prese il nome di Piano Ina-Casa (Istituto Nazionale delle Assicurazioni), un vasto programma di ricostruzione patrocinato dall’allora ministro del Lavoro, il democristiano Amintore Fanfani. I frutti di questo piano sono tuttora visibili ai bordi delle città e dei maggiori borghi della penisola. Oltre Atlantico il modello di riferimento era la “Garden City”, la città-giardino da contrapporre alle agglomerazioni sovraffollate e avvolte nello smog, le “giungle d’asfalto” violente e fonte di alienazione.

Uno dei più famosi slogan che la contestazione del ’68 espresse fu “l’imagination au pouvoir”. Quanto ne avremmo bisogno anche oggi; di fantasia, di visioni, di piccole utopie concrete volte a migliorare le condizioni di vita di tutta la comunità. C’è il potere, che scarnifica il territorio senza tregua. Manca l’immaginazione.

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