I dibattiti

Macello, ciò che non sapremo mai

Ti-Press

Raccolto l’invito a partecipare alla puntata di Matrioska dello scorso 8 giugno 2021, da giurista, oltre che da politico, ho voluto prepararmi provando ad analizzare i pochi, parziali dati già a disposizione, online, per tratteggiare, almeno in astratto, i primi contorni dell’intera vicenda.

Punto di partenza è beninteso la Convenzione del 18.12.2002 tra l’Associazione Alba per il Csoa (Centro Sociale Autogestito il Molino), il Consiglio di Stato e la Città di Lugano, con la quale sono stati formalmente messi a disposizione locali del sedime ex Macello in attesa di uno spazio adeguato e definitivo per l’autogestione; ne discende che l’autogestione è una realtà riconosciuta a Lugano sotto la responsabilità delle autorità di quel Comune e del Cantone.

Per quanto se ne sappia, la Città di Lugano non ha risolto la Convenzione (avrebbe peraltro potuto unilateralmente?), ma ha verosimilmente revocato la messa a disposizione gratuita di quei locali del sedime ex Macello.

La Convenzione rinvia alle norme sul comodato (uso gratuito), ragion per cui, come già ricordato pubblicamente dal giudice emerito Soldini, poteva essere necessaria una richiesta di sfratto al giudice civile prima di poter ottenere manforte dalla polizia per sgomberare i locali dell’ex Macello.

È vero tuttavia che la Città di Lugano si è dotata di un proprio Regolamento sui beni amministrativi (Rba), che quel sedime rientra fra i beni amministrativi della Città di Lugano, e che l’art. 13 Rba, a determinate condizioni, concede la facoltà di revocare o modificare concessioni in uso come quella prevista dalla Convenzione 2002.

Bene. Questo vuol dire che il giudice dello sfratto, che non mi risulta sia stato adito, poteva respingere la domanda poiché la via da seguire era in effetti la sola amministrativa, non civile, sulla base dell’art. 13 Rba, oppure, ritenendosi competente, poteva verificare validità o nullità della ‘disdetta’ prima di entrare nel merito di un eventuale sfratto.

Non lo sapremo mai, però.

Verosimilmente la Città di Lugano ha ritenuto valida la propria decisione di revoca della concessione in uso di bene amministrativo (decisione di cui tuttavia nulla esattamente si sa) e, potendo bastare l’art. 56 della Legge sulla procedura amministrativa, si è sentita legittimata a decidere l’esecuzione forzata della propria decisione di revoca della concessione in uso: detto più semplicemente, ha ritenuto di poter decidere lo sgombero.

È vero che l’esecuzione forzata può avvenire, come dice la legge, mediante coercizione diretta nei confronti dell’obbligato, potendo l’autorità amministrativa chiedere l’intervento della polizia comunale e, in via sussidiaria, della polizia cantonale, che l’impiego della forza deve essere preceduto, salvo casi urgenti, da una diffida inappellabile ad adeguarsi entro un breve termine, ma, soprattutto, che la decisione di esecuzione è impugnabile con i rimedi ordinari di diritto, per cui anch’essa, prima di agire, deve crescere in giudicato.

È andata così?

Non lo sappiamo ancora e, visto che c’è un’inchiesta penale in corso, al momento il segreto istruttorio lascia le bocche più o meno cucite.

Ma ammesso e non concesso che almeno lo sgombero potesse venir messo in atto quel sabato sera con il supporto della polizia comunale e cantonale, la demolizione poteva rientrare fra i mezzi a disposizione?

Dubito fortemente, a meno di crollo imminente della struttura e necessità d’intervento immediato per rimessa in sicurezza dello stabile, a costo, nella peggiore delle ipotesi, di demolirlo completamente.

Si tratta tuttavia di questione posta sotto l’egida della Legge edilizia, la quale rinvia anche a tutta una serie di norme a protezione dell’aria, dell’acqua e del suolo.

Durante quella puntata di Matrioska il Sindaco ha dato ad intendere che non si trattava di radere al suolo quella struttura, ma di toccarla un pochino… L’effetto domino (imprevisto?) avrebbe poi generato la necessità di demolire l’intera struttura.

Mah… forse questa tesi difensiva reggerà in sede penale, mandando quelle responsabilità a tarallucci e vino, fra errori sui fatti, errori sull’illiceità e atti permessi dalla legge, purché non viziati dall’intento di recar danno, ma la responsabilità politica di chi può aver indotto in errore chi ha deciso e di chi ha deciso sentendosi poi ingannato dovrà emergere quantomeno dopo che la giustizia penale avrà fatto il suo corso.

E dire che forse sarebbe bastato restare nel solco delle usuali modalità di presa decisionale in Municipio per avere quel tempo e quel confronto con le altrui opinioni che consentisse di recuperare quella lucidità e quel distacco necessari per contenere all’osso i margini di errore.

Resta l’ipotesi di violazione delle regole dell’arte edilizia. Vuoi vedere che a pagare saranno semmai solo operai intervenuti quel fine settimana, in ore notturne?

Per ora, non possiamo che stare a vedere come per finire ce la racconteranno…

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