I dibattiti

La linea retta

3 giugno 2021
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Quando qualche settimana fa intervenni sulle pagine di questo giornale in merito alla questione del Macello, conclusi l’articolo ricordando che in politica la linea retta non è sempre la distanza più breve fra due punti. Non mi sarei mai aspettato di trovare così clamorosa conferma a quella affermazione paradossale e tanta geometrica scelleratezza nel comportamento del Municipio di Lugano, come quelle palesatesi sabato notte.

Ecco il “rigoroso” teorema municipale: se l’annunciata, ma non autorizzata, manifestazione dei “molinari”, prevista per sabato pomeriggio, fosse stata pacifica, il Macello non sarebbe stato sgomberato; se, invece, vi fossero stati comportamenti illegali, questi sarebbero stati considerati la goccia (pretesto?) che avrebbe fatto traboccare il vaso, con conseguente intervento di sgombero. In vista di questo secondo scenario ci si è preparati a puntino, con la polizia cantonale a dirigere le operazioni, quella comunale e persino forze di altri cantoni a dar supporto. Non sappiamo dove fossero stazionate, nel frattempo, le ruspe, da eventualmente utilizzare per una demolizione che la polizia aveva evidentemente già in testa.

Dopo una manifestazione pacifica, a detta del sindaco addirittura “simpatica”, un gruppo di giovani ha deciso di entrare nell’edificio disabitato che in passato ospitava l’Istituto Vanoni. Date le premesse prima esposte, e ritenuto il fatto del Vanoni un grave episodio di illegalità, è scattata la decisione di sgombero, considerata quasi ovvia conclusione di un sillogismo pratico. A questo punto la polizia ha sottoposto al Municipio (o meglio, ad una informale maggioranza di esso, costituita dai membri che si erano detti favorevoli allo sgombero) un corollario alle precedenti premesse: se si fosse voluto che lo sgombero risultasse irreversibile, sarebbe stato necessario demolire lo stabile, o almeno la parte non considerata monumento protetto. Il neocostituito Sotto-Municipio (Comitato di salute pubblica?) ha autorizzato: come si suole dire, da cosa nasce cosa, seppur in base a una logica perversa; viva l’esprit de géométrie e al diavolo l’esprit de finesse, come volevasi dimostrare. D’altronde le frasi famose al riguardo abbondano: “Non si può fare la frittata senza rompere le uova”,” la rivoluzione non è un pranzo di gala” ecc.

Non è difficile vedere in questo modo razionalmente irrazionale di procedere anche un inquietante prolungamento di quella logica emergenziale e poliziesca che la pandemia ha favorito, con la differenza che l’emergenza sanitaria era oggettivamente grave, mentre quella relativa al centro autogestito è stata esasperata dall’esecutivo luganese. Al momento di agire, la vigorosa determinazione della polizia deve aver persuaso i decisori politici, che non si sono resi conto dell’enormità, a cominciare dall’effetto immagine, che stavano compiendo. C’è da interrogarsi sulla capacità di valutazione dei decisori in questione. “Uno dei problemi non era tanto lo sgombero, ma cosa sarebbe accaduto dopo”, ha spiegato il sindaco: “Non ho molta esperienza in materia, ma mi è stato detto che in questi casi bisogna fare in modo di rendere impossibile un rientro nell’edificio. Faceva parte delle misure che la polizia aveva ipotizzato già nelle scorse settimane”. (citato dal sito della Rsi). E dunque,… se lo dicono loro. La municipale Valenzano Rossi ha riconosciuto che l’esecutivo, “nell’istante della decisione” (ma non era uno scenario già ipotizzato settimane prima, come detto da Borradori?), non è stato fino in fondo consapevole della portata simbolica della opzione adottata. Ma come è stato possibile?

Ora il significato simbolico di quell’edificio l’hanno capito tutti, forse anche i mattoni che lo componevano. Che gli edifici siano inscindibilmente legati alle istituzioni sociali che ospitano è cosa nota: basta pensare al significato di termini come “chiesa”, “scuola”, “teatro” e persino “municipio”, che si riferiscono all’istituzione (con le relative attività) e alla costruzione. Fra le altre cose, un edificio rappresenta quella continuità che è tipica delle istituzioni, che rimangono, mentre gli individui passano (in questo caso, genitori, figli, già qualche nipote). Da questo punto di vista l’autogestione è certamente un’istituzione sociale, che ha dimostrato di essere capace di durare nel tempo, darsi alcune regole (per quanto solo abbozzate nella mente dei partecipanti e piuttosto labili), un organo decisionale (l’assemblea), un’identità, di cui il carattere provocatorio e l’intrattabilità sono parte essenziale, e una memoria. Una memoria che è anteriore a quella del Lac, della Casa della letteratura, del LongLake Festival, tutte realtà che Lugano giustamente si vanta di avere, e persino del Mojito Bar. È peccato che tutto ciò non l’abbia resa degna, agli occhi dei nuovi e vecchi municipali (salvo le debite eccezioni, e questo bisogna pur sottolinearlo!), di vedere almeno risparmiata la trasformazione del centro in macerie. L’autogestione è da tempo, per il Municipio, solo un problema di ordine pubblico. Sempre nel mio articolo, citato all’inizio, mi permettevo di dire che l’idea luganese di “legge e ordine” ricorda un po’ la desertificazione. Le macerie sono un primo passo. Alla fine tutto torna polvere.

A proposito di polvere, non è neanche calata quella provocata dalla demolizione e già si riprende a parlare di dialogo, ma è ben difficile crederci. Infatti riconoscere, come la maggioranza dei politici sembra fare, che uno spazio per l’autogestione a Lugano ci debba essere, dovrebbe comportare l’accettazione di modalità di confronto ovviamente molto informali, diciamo così, in cui un reciproco, simmetrico riconoscimento non sarà mai possibile, e qualcuno dovrebbe dunque fare un passo in più: l’autorità. Non per paternalismo: la carota dopo il bastone (soprattutto quando si tratta di una ruspa), ma perché quello è un pezzo di società che, al di là delle inevitabili incomprensioni, merita considerazione e rispetto. Quanti fra quelli che si dicono aperti al dialogo nutrono questi sentimenti? Anche a voler interpretare, molto benevolmente, l’inattesa e sconcertante conclusione di questa fase della vicenda come una sorta di macroscopico lapsus politico, non possiamo ignorare che i lapsus, come ci insegna Freud, sono involontari ma non casuali. Dicono molto su chi li fa: in questo caso nulla di buono.

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