Il dibattito

Proibito proibire

La libertà evocata ai nostri giorni mi sembra un passo indietro nella direzione di un individualismo esasperato e miope

7 ottobre 2020
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Uno degli slogan più popolari durante il Maggio francese del '68 era: Il est interdit d'interdire, è proibito proibire. Una esigenza espressa in nome della libertà di pensiero e di comportamento, urlata nelle piazze di Parigi durante le manifestazioni e declinata nelle aule della Sorbona a seconda delle diverse convinzioni politiche presenti nel movimento studentesco di allora. Chi lo leggeva in chiave anarchica antagonista comunque al potere, chi, superando barriere fisiche e mentali, pensava alla necessità di una presa di coscienza nei confronti di realtà costrittive che andavano cambiate nei fatti.
Lo stesso slogan sembrerebbe essere stato fatto proprio dai movimenti anti-covid e mascherine, no-vax, terrapiattisti, QAnonisti e altri complottisti (la luna? mai calpestata!) scesi in strada un po' dappertutto per manifestare il diritto alla loro libertà di scelta. Anche in tempi più sereni degli attuali c'era chi si dichiarava contrario, sempre per questioni di libertà individuale, all'introduzione dell'obbligo delle cinture di sicurezza in macchina o del casco per l'uso della moto.
Naturalmente si può mettere in discussione tutto; la Chiesa, ad esempio, dibattè a lungo per stabilire se e gli angeli fossero maschi, femmine, esseri asessuati o puri spiriti, come stabilì una volta per tutte San Tommaso. A proposito di complotti e religione mi viene in mente una recente intervista su 'Robinson' a Dan Brown, nella quale l'autore del Codice Da Vinci dice che per essere coerenti i complottisti dovrebbero anche fare i conti con dio, vero deus ex machina dell'universo, se mai ce n'è stato uno.
Qui il discorso è diverso: viaggiare senza cintura e senza casco può provocare danni fisici e morali importanti ai soggetti recalcitranti, ma pure spese sanitarie e assicurative che incidono sulla qualità della vita dell'intera comunità. Il ragionamento diventa ancora più problematico nel caso attuale dei 'no-covid e tutto il resto', che non solo sono pericolosi per loro stessi, e fin lì passi; ma, cosa più importante, lo sono dei confronti degli altri che la pensano diversamente circa la pericolosità del contagio e che comunque preferirebbero evitare ricoveri e ventilazioni forzate; anche questo è un loro indiscutibile diritto, del quale un cittadino responsabile dovrebbe tener conto. In fondo la questione si può risolvere ricorrendo al pensiero di Jean Jacques Rousseau quando tratta del 'contratto sociale' che in una società civile deve legare governanti e governati; per non poi citare una celebre frase attribuita a Martin Luther King secondo il quale 'la mia libertà finisce dove inizia la tua' e viceversa. Princìpi che servono ad affrontare e risolvere i conflitti economici e sociali insiti in ogni società umana, fino a quando non si verifichino abusi, spesso da parte di chi esercita il potere. E qui si può aprire la discussione su dove fissare i confini della questione 'rispetto della legge', diritto al dissenso, a manifestare, scioperare ecc, fino alla liceità morale della rivolta pacifica o violenta in presenza di un conflitto insanabile.
Comunque, se la rivendicazione sessantottina mi pare era portatrice di spinte positive in un ambito sociale proiettato verso una società migliore (con venature di trasgressivismo e non sempre coerenti, è vero); la libertà evocata ai nostri giorni mi sembra invece un passo indietro nella direzione di un individualismo esasperato e miope, che a fronte delle centinaia di migliaia di morti in tutto il mondo, sa davvero di offesa alla Ragione prima di tutto, ma in generale all'Umanità e in particolare nei confronti dei 'dannati della terra' (come Franz Fanon chiamava i poveri del nostro pianeta) che sta lottando da mesi tra sofferenze e sacrifici per ritrovare una prospettiva di vita decente.

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