Il dibattito

Disabilità, bunker e vita vera

La fragilità umana ci appartiene dalla notte dei tempi, non può essere eliminata solo con semplici severe direttive e rinchiudendo i più deboli in bunker, senza nemmeno prenderci la briga di ascoltarli

(Ti-press)

La situazione nelle case anziani fa discutere e preoccupa. Anche sulle colonne de laRegione, dove il direttore Matteo Caratti si chiede se sia davvero giusto rinchiudere le persone anziane in una sorta di fortino. Me lo sono quindi chiesto per davvero: se avrò la fortuna di scampare novant’anni, una volta debilitato e impossibilitato di vivere al mio domicilio, vorrò passare gli ultimi anni o mesi della mia vita in una sorta di bolla di plastica? Isolato, senza vedere regolarmente gli affetti più cari, senza godere delle piccole gioie di un pranzo in comune, due ore al sole tiepido nel giardino, la musica dell’animatore? Senza percepire la vicinanza, la tranquillità e il calore umano di chi giornalmente mi cura?

Chi lo sa. La paura della morte – perché il Covid c’è, è pericoloso e può uccidere – è difficile da misurare proiettandosi così in là, tra cinquant’anni. Oggi quarantacinquenne posso però affermare con una certa sicurezza che se dovessi rimanere vittima di un grave incidente o di una grave malattia degenerativa non vorrei passare mezzo secolo così. Dopo i primi mesi di chiusura generalizzata, mi aspetterei un approccio equilibrato e che mi sia permesso di vivere una vita - certo diversa da prima - ma vera e il più possibile piena. Un po’ come stiamo facendo quasi tutti noi in questi mesi dove, con prudenza, abbiamo ripreso le nostre attività. “Vivere senza esistere è la peggiore delle torture” scriveva l’antropologo Charles Gardou riflettendo sulla situazione delle persone con disabilità nelle varie società, in particolare nella nostra. Ricordiamoci che vivere una situazione di disabilità non significa necessariamente far parte di una categoria a rischio Covid. Come non basta essere semplicemente over 65. Dobbiamo sempre dubitare delle etichette e delle soluzioni facili.

In effetti per chi è costretto a vivere in una struttura comunitaria la situazione è ancora più complicata. Chi si assume la responsabilità di un eventuale contagio? La Direzione, i responsabili di Fondazione o i politici responsabili sono chiamati direttamente in causa e la reazione esterna può essere davvero veemente: accuse, atti parlamentari, richieste di intervento alla magistratura. Vedremo gli esiti degli accertamenti e se andranno presi dei provvedimenti. Attualmente però, questa situazione persecutoria ha prodotto più che altro paura e irrigidimento in chi è chiamato ad assumersi delle responsabilità, soprattutto nelle case per anziani. Nelle strutture per persone con disabilità, la collaborazione tra enti e autorità hanno in realtà fortunatamente portato a soluzione vieppiù ragionevoli e individualizzate. Il consiglio alle persone coinvolte e ai parenti è sempre quello di cercare il più possibile il dialogo con le strutture.

La questione etica tra protezione della salute e promozione della qualità di vita rimane tuttavia molto complessa. Occorre valutare caso per caso, trovare soluzioni individualizzate e condivise, applicare regole generali, ma anche avere la forza di proporre eccezioni virtuose. Per garantire una vita dignitosa, occorre poter assumere anche dei rischi - seppur sempre ben ponderati - e soprattutto occorre avere la consapevolezza che la fragilità umana ci appartiene dalla notte dei tempi e che non può essere eliminata solo con semplici severe direttive e rinchiudendo i più deboli in bunker, senza nemmeno prenderci la briga di ascoltarli.

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