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Claudio Mésoniat: 'Mi succedeva di annotare di tanto in tanto dei pensieri improvvisi su quanto di buono stava accadendo sia pure in mezzo alla pandemia'

Claudio Mésoniat (Ti-Press)
16 maggio 2020
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Il bilancio della pandemia in Ticino è nero: oltre trecento morti in un paio di mesi, quando la normale influenza non superava da decenni i due, tre, massimo venti decessi annuali. È ancora troppo presto per fare previsioni sui danni economici e sociali, ma vien da piangere a pensare alle migliaia di disoccupati che il covid19 lascerà sul terreno e alle centinaia di negozi, bar, ristoranti e altre piccole e medie aziende che non ce la faranno a sopravvivere. Sono ferite profonde, che segneranno a lungo il nostro Paese.

Tuttavia durante queste settimane di intensa mobilitazione glocale anti covid, vissute nella trincea assegnatami, quella di una clausura digitale più interconnessa che mai, mi succedeva di annotare di tanto in tanto, prima mentalmente e poi su qualche pezzo di carta, dei pensieri improvvisi su quanto di buono stava accadendo sia pure in mezzo al sottosopra drammatico della pandemia. Ho ripreso in mano quegli appunti e ora provo a trascriverli con un po’ di ordine.

Un colpo di gong

Prima di tutto la dolorosa vicenda può essere vista come un colpo di gong che ci ha risvegliati da una sorta di sonnambulismo esistenziale in cui l’orgoglio tecnologico e la corsa al consumo fine a se stesso (pagato, altrove nel mondo, con la fame) ci stavano cullando da decenni, convinti di essere invulnerabili, come società e come individui.

Covid19 è stata l’irruzione della morte, non più come prospettiva lontana nel tempo e nello spazio ma come quel “sibilo della falce” a pochi passi da me (da te, dai nostri cari), di cui con espressione icastica, da film bergmaniano, ci ha testimoniato una figura popolare come quella del direttore del Film festival, Marco Solari. È umano sopravvivere nella smemoratezza (coltivata) della nostra condizione mortale, della nostra finitezza?

Ambiente e società, vulnerabili come noi

Altrettanto finito e vulnerabile è il nostro ambiente naturale e sociale: è umano saccheggiarlo anziché coltivarlo e proteggerlo? Se pensavamo di essere “sani in una società malata”, socialmente ed ecologicamente, ci ha pensato l’incolpevole piccolo virus a infliggere una tremenda umiliazione al nostro orgoglio tecnologico, incurante degli scarti di ogni genere seminati sui percorsi delle sue magnifiche sorti e progressive. Non si tratta adesso di arrampicarsi sui vetri per riuscire a imputare la pandemia ai cambiamenti climatici (nessi con l’inquinamento atmosferico sembrano invece possibili, come pure quelli con il maltrattamento degli animali), tanto più che il virus dei pipistrelli ha spostato la nostra attenzione dalle apocalissi future a uno scenario presente e luttuoso di caos globale.

L’utopia autarchica

Ma ci sono altre scoperte interessanti in mezzo alla tragedia. Per esempio la percezione di essere tutti sulla stessa barca, non solo nel proprio Paese o paesello ma su tutta la terra. Oltre metà della popolazione mondiale confinata in casa, mentre tutti i centri nazionali di ricerca che sorreggono la medicina nel mondo riscoprono la necessità di lavorare più intensamente insieme (con le inevitabili smagliature sovraniste). Anche le economie nazionali si ritrovano ormai talmente interdipendenti da non consentire a nessuna di esse di rimettersi in moto senza che anche le altre si rialzino in piedi. Giusto riflettere sui risvolti negativi delle filiere produttive globali (leggi delocalizzazioni spinte dalla pura ricerca di manodopera a basso costo). Ma l’autarchia appare ormai un’utopia passatista (se non in settori strategici).

La politica e il bene comune

Andiamo avanti. La politica. Confesso un sogno: che finita l’emergenza rimanga quel senso del bene comune che ha dominato gli attori della politica a tutti livelli esecutivi (dal CF ai CdS ai Municipi). Tutti tesi alla creazione di soluzioni di compromesso e fedeli alla collegialità (“Remiamo tutti nella stessa direzione!”), legislatori e partiti compresi, in attesa del loro turno. Ho già nell’orecchio il rombo dell’indignazione corale che la mia confessione avrà suscitato: questo sogno è la fine della democrazia, l’opzione inconfessata per un’oligarchia politico-tecnocratica (la dittatura di virologi e loro simili, per l’eternità). Calma. Stavo solo dicendo che la politica ai tempi del covid ha messo fuori gioco per un momento le patologie che da troppo tempo hanno ridotto la politica a “partitica”, dove tutto, consenso o dissenso, viene calcolato in funzione dei dividendi elettorali e prima ancora di varie forme di carrierismo e di esibizionismo personale. Se la politica pre-covid aveva vertiginosamente perso credibilità era anche a causa di questi virus. Il confronto anche duro tra ideali e interessi diversi, la dialettica parlamentare tra partiti sono componenti irrinunciabili di una democrazia sana. Tutto dipende dalla stella polare, dallo scopo che guida confronto e dialettica. Se ad esempio il gioco politico torna a ridursi alla ricerca, a tutti i costi, del “colpevole”, del “nemico”, “dell’untore”, che sia dentro le mura di una casa per anziani o oltre una frontiera, siamo daccapo.

Avevo già fatto notare, in dialogo con Gabriele Gendotti, che l’emergenza ci ha “costretti” a riscoprire, nella medicina come nell’assistenza, la necessaria complementarità tra pubblico e privato. Ribadisco che la sussidiarietà, iscritta nel patrimonio genetico del sistema politico svizzero, nutre la fiducia in uno Stato robusto ma capace di stare al proprio posto.

Chi ha paura dello Stato (e della scienza)?

Per questo fatico a comprendere i timori di derive autoritarie che alimentano in questi giorni la discussione pubblica sulle deroghe concesse alle autorità politico-sanitarie per consentire il tracciamento dei nostri movimenti, indispensabile per arginare la diffusione del virus. C’è un sottofondo lievemente cospirazionista e antiscientifico nell’allarme lanciato contro uno “Stato di polizia”, specie di Grande Fratello che si prepara a controllare ogni nostro movimento. Inviterei, come altri hanno già fatto, a prendere coscienza, piuttosto, del fatto che i veri Grandi Fratelli, che conoscono tutto di noi, dai gusti agli interessi alle tendenze politiche, e vendono i nostri profili a milioni di aziende lucrando miliardi, sono già all’opera e abitano da un’altra parte, per la precisione nella Silicon Valley o in altri Stati USA come anche in Cina e si chiamano Google, Amazon, Alibaba ecc.

Usciremo migliori o peggiori da questa pandemia? Dipende solo da come ci stiamo dentro adesso, con gli occhi lealmente aperti sulla realtà oppure con lo sguardo annebbiato dalla paura di dover cambiare, dall’ansia che tutto torni come prima.

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